Dopo aver visto l’ultimo urticante film di Jacques Audiard (recensito da questa parte su IE Straneillusioni) ci si chiede se uno dei problemi peggiori del nostro paese non sia quello di una retorica politica senza fine che, come sempre, al linguaggio preferisce sostituire l’apparente inattacabilità dei contenuti. Se non ci fosse niente di male e se non ne avessimo le palle piene di questa asfissia creativa, potremmo tapparci le orecchie e onorare i Popucià per il loro impegno politico, le iniziative a favore dell’Africa, le incursioni nel carcere minorile di Casal Dei Marmi e il consueto spirito di condivisione che ci fa credere quanto la rete con il magico numerino 2.0 sia bella, democratica e capace di generare musica di qualità. A darci fastidio è tutta questa “comunicazione” in eccesso che ha sostituito l’urto critico con un’inerzia preoccupante, una sovrapposizione inquietante che vanifica qualsiasi scrittura; sarebbe meglio tacere, copiare i comunicati stampa controvoglia e in modo automatico, cedere alle lusinghe di queste nuove veline della rete che spammano la loro musica casalinga senza ritegno. Ci sono cascati tutti o continuano a volerci cascare per vendere tre copie in più di una rivista che si trova un’edicola si e tre no, non è più il web a scimmiottare il cartaceo, sappiamo benissimo come le vacche magre abbian costretto immarcescibili direttori ad attivare tattiche esattamente opposte; mimare l’ipertrofia della rete attraccandosi ai piccoli casi della provincia “creativa”. E’ il carburante di un’Italiuccia ridotta in scala che mima le cattive abitudini delle grandi aziende; far sopravvivere un oggetto inesistente e parassitario a partire dal microsistema economico che lo regge in piedi; promoters, agenzie di booking, vecchi vampiri col sangue marcio che lottano per la sopravvivenza, blogstar o facebookstar che andrebbero terminate senza pietà. Pop 2.0 è una raccolta di brani con un’anima già vecchia, già sentita, un dub scaduto e cantato controvoglia, non smuove un bel niente se non questa sgradevole sensazione che si possa spendere ancora soldi (molti) per produrre una raccolta di brani imbarazzanti e inerti; gli inermi nel caso, siamo noi, costretti ad assorbire passivamente questa “verità rivoluzionaria”.