È con grande trepidazione che approccio il Primavera Sound 2011. Fin dalla fondazione il festival Barcellonese ha potuto contare sulla presenza di artisti di rilievo, tuttavia il cartellone di quest’anno sembrava prospettare una qualità persino superiore alla media dell’evento. Ciò che in primis ha stimolato l’entusiasmo di chi scrive è stata la massiccia adesione di “vecchie glorie”, ovvero di formazioni (alcune in attività da decenni, altre riesumate per l’occasione) che affondano le radici nell’humus culturale degli anni ’70 e ’80. Un periodo più volte descritto dai critici come particolarmente fecondo in ambito musicale, portatore di ardite commistioni fra elementi di avanguardia oltranzista e tradizione rock. Per quanto autorevoli, tali affermazioni non sono in grado di trasmettere il loro significato più profondo finché rimangono esclusivamente sulla carta. Solo il vaglio della prova live mi ha permesso di constatare come l’appartenenza al proprio tempo sia un fattore cruciale nel determinare la caratura di qualunque artista. Non intendo calarmi nel ruolo di chi preferisce sempre e comunque il vecchio al nuovo, né fare uno sterile elogio dei bei tempi andati: le band giovani e valide, nel novero complessivo degli artisti presenti al festival, erano numerose. Tuttavia ho avuto modo di verificare come gentiluomini non proprio nel fiore degli anni, pur tradendo trascorsi esistenziali decisamente burrascosi (e forse anche grazie a questo fattore), abbiano abbondantemente oscurato i loro colleghi più giovani. Tale rivelazione mi si palesa fin dal primo giorno, grazie all’incontro con i redivivi Public Image Ltd. di John Lydon. Mentre mi dirigo verso il Llevant Stage sono ben cosciente che la mia curiosità è dettata soprattutto da ragioni affettive, non mi aspetto nulla di trascendentale dalla performance dei P.I.L.. Eppure, in barba ad ogni pronostico, i quattro portano a casa una delle esibizioni migliori dell’intera rassegna. Accanto al leader sono presenti la new entry Scott Firth (basso) ma anche due militanti della vecchia guardia come Bruce Smith (batteria) e Lu Edmonds (chitarra e strumenti a corda), già membri del gruppo nella seconda metà degli anni ’80. L’attitudine di Lydon mi coglie totalmente impreparato: descritto come un individuo intrattabile, provocatorio ed esasperante il nostro si rivela un performer energico ed affabile. Il sincero entusiasmo dei quattro traspare dalla disinvoltura con cui attingono a quasi tre lustri di carriera, accostando nenie avant come Religion, Flowers of Romance e Swan Lake ai più celebri inni disco punk This is not a Love Song, Rise e Warrior. Il vulcanico leader catalizza l’attenzione del pubblico con le consuete smorfie ed una parlantina irrefrenabile, ma il premio della critica spetta sicuramente all’allampanato Edmonds, capace di cavare note stridenti tanto dalla chitarra quanto da manufatti esotici come Saz o Bouzouki. La fusione fra attitudine punk e ritmiche disco – che tanto ha spopolato in ambito underground negli ultimi dieci anni – è stata concepita proprio da Lydon & co., e se questo concerto non ha riaffermato il loro ruolo di capostipiti davvero non so cos’altro potrebbe farlo. Immensi. Mi rincresce enormemente non poter assistere alla suite di Glenn Branca ma è ora di spostarsi verso il San Miguel Stage, già affollatissimo per l’esibizione dei Grinderman. Se i P.I.L. ci avevano mostrato le radici del post punk originario, Nick Cave e soci ci illustrano con straordinaria veemenza il significato della parola rock’n’roll. Jim Sclavunos, tutto di rosa vestito, percuote senza pietà la sua batteria (rosa anch’essa!) mentre Marty Casey lo coadiuva impassibile. Gli occhi sono tutti puntati su Cave, che imperversa sulla scena come un ciclone localizzato. Tuttavia, in più di un’occasione, il barbuto Warren Ellis (sempre più simile alla versione occidentale di Rasputin) riesce a rubare la scena al leader: si agita, piroetta, suda copiosamente, urla nel microfono, violenta la sua fender mustang, percuote il charleston che ha al fianco o si limita semplicemente a ballare. Vengono passati in rassegna diversi brani dell’ultimo, eccellente Grinderman II, ma quando i nostri partono con l’attacco omicida di No Pussy Blues il pubblico si abbandona definitivamente ad un’estasi orgiastica e liberatoria. A parere di chi scrive l’apice del concerto è una vibrante versione di Grinderman, che vede solo i due uomini di punta calcare il palco. Mentre Ellis accompagna alle maracas, Cave fa sfoggio della sua abilità alla chitarra, dimostrando un’inattesa padronanza dello strumento e lanciandosi in ruvide escursioni sulla scala pentatonica. L’australiano aggredisce la sei corde con semplicità e ferocia, tradendo un’attitudine figlia del blues originario e del garage punk, la stessa che potremmo avvertire in una qualunque incisione degli Stooges. (continua a pagina 2…)