Con una ritrovata voglia di fare, nemmeno fossero ad un altro esordio, i Ronin rinascono dalle proprie quasi-ceneri (Bruno Dorella ha confessato di aver pensato di sciogliere la band dopo l’abbandono di Enzo Rotondaro) per dare alla luce il loro quarto lavoro. Nuova etichetta (Santeria) nuovo batterista (Paolo Mongardi) e 9 pezzi inediti. Fenice ha avuto una lunghissima gestazione, causa vicissitudini di cui sopra, per finire poi ad essere registrato a “casa propria” ed essere mixato dal buon Tommaso Colliva. È un disco quasi interamente strumentale, ma non per questo di difficile ascolto o assimilazione, anzi. È un album dalla pregevole fattura e dalla musicalità diffusa, assieme a Good Luck dei Giardini di Mirò è quanto di meglio è uscito di italiano da Gennaio ad oggi. Ricco di richiami alla musica classica, barocca e seicentesca, così come a Morricone e al desert-surf, l’ultima fatica dei Ronin si sviluppa tra le chitarre in punta di fioretto di ‘Spade’, la cavalcata dai riff arrembanti che è ‘Benevento’, la dolce poesia che accarezza le corde dell’anima in ‘Selce’ e ‘Fenice’, quello che sembra essere un mandolino Fender su ‘Jambiya’ una giga medievale che divaga nel noise e nel free-jazz. Fino ad arrivare ai contrasti di ‘Conjure Men’, fra un flauto a metà tra l’orientale e l’immaginario cavalleresco e una tromba che suonando le medesime note creano atmosfere diametralmente opposte. Tra canzoni che si rincorrono mangiandosi la coda e altre che sembrano un viaggio attraverso i nostri sentimenti, la resurrezione dell’uccello di fuoco risulta ancora una volta un rituale maestoso, elegante ed emozionante a cui assistere.