Otto membri ufficiali figurano nel loro myspace, e se in circostanze naturali si potrebbero formare due o tre gruppi con otto membri, i Rubik se potessero accoglierebbero anche altri suonatori, che siano tutti membri di una filarmonica nordeuropea oppure di una banda tzigana ma anche i Dream Theater. Riesce difficile immaginare una configurazione ideale per questi poliedrici finlandesi che fanno del pop la loro base creativa per espandersi poi in ogni direzione, ad attingere o inglobare nuove possibilità di sviluppo di ogni traccia. Non intendo con questo dire che con la loro volubilità siano potuti arrivare alla canzone primordiale, il big bang musicale dal quale è nata tutta la musica. Intendo piuttosto specificare come con una buona dose di pop nelle vene, con la spudoratezza simil-prog tanto cara all’indie anni ’00 e con una strumentazione di ogni tipo si possa strutturare una canzone con pochi riff ma ripetuti con costrutti intelligenti e innovativi allo stesso tempo; e che inoltre ogni altro tipo di arrangiamento in più, sia appunto metal o neoclassico o etnico potrebbe risultare interessante. A un ascolto superficiale pare impossibile affezionarsi, da quanta concretezza mostrano i Rubik, ma in realtà basta fare attenzione per notare come si dilettano al gioco delle tre carte: cambia l’ordine, ma sempre tre carte, anzi riff, sono. Sia che si tiri fuori il banjo (No Escape) o un basso in stile Joy Division (You Jackal!!) o la tromba della revolucion (Indiana) questo non intacca minimamente il loro modo di fare pop: sempre a metà tra gli esordi folk degli Animal Collective e gli attuali trascorsi elettronici, proponendosi in modo furbetto, con un occhio ad ammiccare e uno ad allontanare l’ascoltatore, quasi a scegliersi il loro pubblico di riferimento. Da tenere sotto controllo, perlomeno per farsi una chiara opinione su di loro.
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