Con una ferocia non comune la musica di Simona Gretchen rimane ancorata agli appigli di una scrittura interiore sofferta e impalpabile, un racconto che si manifesta quasi sempre dallo scontro positivamente irrisolto tra parola e deriva sonora; se lo spettro di certo Ferretti, la claustrofobia anche fonica di Clementi, i giochi palindromi di Battiato, il folk popolaresco e politico di Anna Identici, Cale e Nico con le loro liturgie più paranoidi entrano dalla finestra per risonanze e suggestioni, escono dritti dalla porta principale lasciando spazio al disegno di un’artista con un’identità molto rara, capace di estrarre il cervello dallo stomaco. Due testi, quello sonoro e l’immagine poetica, collocati in abisso. “A volte è più forte il pensiero di avere pensato qualcosa di vero”, litania ossessiva capace di biforcare la ritmica di Alpha Ouverture, quale sia il contenitore è difficile stabilirlo; si apre così Gretchen pensa troppo forte, nel segno della separazione tra visione e pensiero. Alla semplicità crudele di brani come Le mie fate, cera, due apprendisti e la splendida Bianca in fondo al mare, quasi sempre in bilico tra racconto popolare e una visionaria politica dei sentimenti, fa eco il punto di vista sdoppiato e caotico di episodi come Fockus e soprattutto O Nostre pelli; immersi come sono in un percorso diseguale e accidentato, non si limitano a delineare dissonanze di convenienza o a servirsi del tessuto sonoro come di un abbellimento generico, al contrario, la parola va a sbatterci contro, si inceppa, prende una strada diversa e complica l’ascolto. Senza farsi inghiottire da immagini raccontate con furia ipertrofica, Simona scolpisce e colpisce a morte con la parola; un vomito generazionale che a Vasco Brondi vien fuori rimanendo ancorato alla superficie e che Simona Gretchen rende finalmente politico in un dipinto di musica e segni.