Arrivati al settimo disco di inediti della loro quasi ventennale carriera, gli Apples in Stereo continuano a divertirsi come matti a suonare una riedizione delle gemme pop incastonate nei precedenti lavori. Il primo impatto è quasi straniante: Dream About the Future ha quasi il suono dei documentari sul corpo umano old school, con abusi di vocoder in stile Daft Punk; Hey Elevator e Dancefloor tirano fuori un’anima dance e funk, in un’ottica prettamente vintage, che nemmeno gli Alcazar. L’apice dell’estrosità la dà CPU, quasi totalmente impostata su un muro di synth vecchio stile. Terminata quest’ultima, si torna quasi interamente alla normalità. Beach Boys, Kinks et similia ritornano a prevalere nella loro personale classifica dei miti da imitare, e così il disco scivola via, tranquillo e rassicurante come il faccione da Bill dell’Indovina Chi del cantante Robert Schneider. Il gruppo sfrutta a metà il tema del viaggio nel tempo (molto ben realizzato invece nella campagna pubblicitaria) e, ancorati come sono alla retorica dei gloriosi anni 60, si concedono solo una breve gitarella nel futuro. Alla fine c’è poco di nuovo, ma album di maniera così non tutti sono in grado di realizzarli.