Terza prova, dopo i dischi del 2003 e del 2006, per l’hardcore band californiana cresciuta all’ombra di Black Flag e Bad Brains. Anche in questa occasione i modelli di riferimento non vengono abbandonati, sia con la ricerca di brani epici che puntano molto su energia, muri di chitarra e la voce diretta e cattiva di Matt Caughthran, sia a livello di ideali, con la rescissione del contratto major in favore dell’autoproduzione e di una maggiore libertà.
Il risultato è sicuramente buono: le 11 canzoni del disco si muovono su ritmiche sostenute di impronta hardcore, senza alcuna diminuzione di intensità e di trasmissione di rabbia ed energia, con l’aggiunta qua e là di influenze provenienti dal mondo hard rock, a rendere più vario ed interessante l’ascolto. E’ così già dall’iniziale “Knifeman”, introdotta da un semplice ma ficcante riff di marca Ac/Dc, seguito da un’accelerazione che ci riporta nell’alveo del punk di ultima generazione, per esempio quello dei Rise Against. “Inveigh” è ancor più energica, violenta fin dall’attacco, con 30 secondi per riprendere fiato nel mezzo prima del rabbioso finale. “Past Lives” si muove su territori punk-rock più convenzionali, con un ritornello più orecchiabile e strofe e bridge veloci e tirati al punto giusto. Nei primi secondi di “Enemy Mind” ritorna una chitarra alla Ac/Dc, seguita però da un cantato quasi rappato di matrice Transplants; il tutto trova coronamento in una scarica hardcore spinta fin quasi ai suoi estremi. La seguente “Pleasure Seekers” risulta meno interessante, senza particolari spunti, al contrario di “Six Days A Week”, che parte già con un passo superiore per poi trasformarsi in un vero e proprio inno, che sarà probabilmente tra i più cantati sotto i palchi calcati dai californiani. La stessa sorte probabilmente toccherà a “Young Bloods”, che riporta senza mediazioni ai Black Flag e al loro modo di infiammare il pubblico. A chiudere il terzetto, senza lasciare tempo per respirare, arriva “Ship High In Transit”, poco più di due minuti tiratissimi. Con “Minutes In Night” e “Spanish Handshake” ci si sposta su linee diverse, rimanendo comunque nel segno della velocità e dell’energia, con attimi che possono ricordare le cavalcate dei Motorhead. La conclusiva “Digital Leash” ritorna verso l’hardcore puro, regalando un altro anthem da gridare a squarciagola in mezzo al pogo. Probabilmente la missione dei The Bronx era questa, e pare riuscita perfettamente.