Come sembra suggerire il nome, il Covo è uno spazio alquanto angusto. Mentre fuori piove a dirotto, sono poco più di un centinaio le persone che si accalcano all’interno del locale bolognese per assistere all’ esibizione dei Faint. In attesa di vedere i cinque calcare il microscopico palco, nella testa del sottoscritto riaffiorano vividi i ricordi di un altro autunno – altrettanto piovoso – e di un locale londinese – altrettanto angusto – dove nel lontano 2002 venni per la prima volta esposto alla musica della formazione statunitense. Ancora ne ero all’ oscuro ma Il quintetto di Omaha avrebbe innescato in me quella che considero adesso come una piccola Rivoluzione Copernicana.
Trascinato al concerto da uno dei miei più fidati mentori musicali di allora, ero stato sommariamente istruito circa lo stile del gruppo con l’ espressione “…kind of like electro-pop…but punk underneath…”. Il che suonava interessante e, per l’epoca, piuttosto originale. Era inoltre una definizione perfettamente calzante, come mi sarei accorto di lì a poco.
I Faint si trovavano in stato di grazia: avevano da poco pubblicato Danse Macabre, quello che tuttora considero il loro album migliore, ed offrirono al pubblico in sala una performance estremamente energica. La musica aveva effettivamente un substrato punk, sonorità molto “rock” sebbene il quintetto facesse un uso massiccio di sintetizzatori. Ma questo rock lo si poteva ballare con le stesse movenze di una Tainted Love qualunque ad una serata di revival anni ’80. Cosa che il sottoscritto scoprì, in quella occasione, di apprezzare profondamente. E per chi appartiene ad una generazione cresciuta a pane e Nirvana, credete, non è poco!
Risultato: per i successivi tre giorni mi sono ritrovato a canticchiare incessantemente il ritornello di “Worked Up So Sexual” e, cosa più importante, sono giunto alla conclusione che ballare fosse estremamente più divertente e liberatorio rispetto al pogare.
Mentre sono perso nelle mie riflessioni i cinque si fanno strada tra la folla e guadagnano il palco. Il leader Todd Fink indossa camicie bianco ed occhiali da aviatore, una mise che accanto alla sua chioma biondo platino gli conferisce un’ aria da scienziato pazzo. Il tastierista Jacob Thiele (“l’unico che si fa il culo”, come ebbe ad osservare una mia conoscenza!) è circondato dai consueti muri di sintetizzatori. Joel Peterson e Dapose si avvicendano alla chitarra e al basso, mentre Clarck Baechle siede dietro alle pelli.
Ci prendono in contropiede i Faint, attaccano con uno dei pezzi più cadenzati dell’ultimo lavoro Fasciinatiion, ma non appena parte “Call call” il pubblico comincia a muoversi frenetico e non si ferma più. In rapida successione, come le immagini che scorrono sullo schermo dietro alla band, si alternano i successi del passato e le composizioni recenti. Il suono è più duro di come lo ricordavo, spesso incline al rumorista, maggiore è lo spazio concesso al sequencing, così che nel complesso il gruppo si avvicina all’estetica di certa techno underground. Questa nuova veste giova soprattutto agli estratti da Danse Macabre come “Glass Danse” o alle atmosfere Daftpankiane di “Paranoiattack”, uno dei cavalli di battaglia che suscitano maggiore entusiasmo. Dapose si agita come una checca sotto anfetamina, Thiele piroetta leggiadro, Fink gigioneggia e urla nel vocoder, mentre Peterson e Beachle mantengono in contrasto un’ aria distaccata. Sull’ introduzione di “Worked Up so Sexual” penso compiaciuto che questa canzone ha quasi dieci anni ed è ormai un classico. “Forever Growing Centipedes”, che ho istantaneamente eletto a miglior episodio di Fasciinatiion (non fosse altro che ha un titolo geniale!), è una bomba dal ritornello a presa rapida. “Dropkick the Punks” e “I Disappear” sono i momenti più rock del concerto e scatenano un furioso pogo. Il set è chiuso alla grande da “Agenda Suicide”, attesa con trepidazione per l’intera durata della performance e finalmente concessa in una catartica climax finale.
Mi allontano dal Covo pienamente appagato da un’ ora e mezzo di musica che ha scosso a fondo i nervi, le orecchie e le membra tutte. Se c’è una cosa che ho piacere di constatare è come, a distanza di sei anni, i Faint non abbiano perso un minimo di smalto.