Nel 1908, un allora ventiseienne Umberto Boccioni creava un fotomontaggio, moltiplicando se stesso in cinque immagini simultanee, narrate in un sistema di riferimento le cui coordinate erano “io e noi”. Quale modo migliore se non una fotografia dei riflessi di se stesso, per rappresentare il rapporto angoscioso e precario che ciascuno instaura con l’altro sé? Vi starete chiedendo: cos’ha a che fare il disco in questione con Boccioni e la precarietà. The Goldberg Sisters, sono la riproduzione virtuale della provvisorietà odierna – sia essa affettiva o lavorativa – ma soprattutto, tale appellativo racchiude il senso di una diffusa crisi dell’individuo come sistema di opposti. Adam Goldberg, colui che si cela dietro questo pseudonimo, ha fatto della temporaneità uno stile di vita, passando dal ruolo dell’ebreo americano-tipico, alla comparsata nel trascurabile Friends (in cui ha impersonato il temporaneo ed odiato sostituto del protagonista Joey), sino alle recenti produzioni musicali che lo hanno visto militare nel progetto LANDy dapprima, per poi sdoppiarsi nelle attuali sorelle “barbute” con le quali ha in comune il proprio cognome, il tutto con una rapidità che ripone nella precarietà una speranza di rinascita continua. Questo nesso è percepibile in alcuni episodi dell’omonimo album, come ad esempio nelle tanto pregnanti di significato Third Person e You’re Beautiful When You Die, nelle quali è anche possibile avvertire la stima per i Cocteau Twins e per le loro musiche psichedeliche. Il poliedrico artista che si nasconde dietro il doppio pseudonimo non nasconde certamente il proprio interesse nei confronti della psicologia, anzi, lo fa definendo la propria musica psicotrope e dedicando ad Erik Erikson – famoso psicoanalista tedesco – uno degli episodi più rappresentativi dell’album. D’altronde, come afferma lo stesso Adam Goldberg, le Sorelle Goldberg si sono formate nel 1970 – anno di nascita del cantante – quando insieme a Celeste – la sua alterego boccioniana – scopriva i poteri curativi della musica nella corsia neonatale. Anche da un punto di vista prettamente musicale questo sdoppiamento (o dualismo) si verifica nell’accostamento fra suoni tradizionali ed elementi attuali, il disco è il risultato dell’implosione di detonatori analogici e digitali. Prendete un tappeto acustico ed imbrattatelo con secchiate di strumenti giocattolo, cantandoci sopra parole di disperazione, annichilimento e sconforto con la stessa eufonia nasale del miglior Sean Lennon: ecco la ricetta per le Sorelle Goldberg. I toy instrument e le attrezzature vintage però non rendono il lavoro frammentario, anzi, si percepisce una coesione ed una omogeneità che in questi casi è difficile da trovare; al massimo, la loro valenza è quella di conferire ai brani un equivalente in musica per quanto riguarda il senso delle liriche (il Roland RE-201 Space Echo usato per il suono “ultraterreno” della già citata You’re Beautiful When You Die la dice tutta sulla consapevolezza musicale di Adam e dei suoi collaboratori). L’uniformità del disco, a sua volta, non comporta però un’assenza di rimandi più o meno volontari che rendono l’intero lavoro mai monotono: si ascolti la seconda traccia Mother Please (The World Is Not Our Home), una furba citazione melodica di The Power of Love di Frankie Goes To Hollywood, che poi viene rinnegata velocemente. E perché non considerare The Heart Grows Fonder un brano twee pop, degno di quelli usciti dal cilindro dei Belle and Sebastian, anche in questo caso con un crescendo finale che contraddice il tutto? Un po’ Jason Lytle, un po’ nerd style, un po’ lo-fi, un po’ nessuno-di-questi, in vista di qualcosa di nuovo che non sempre riesce ad entusiasmare al primo ascolto, ma che nel complesso, arriva comunque a convincere pienamente.