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The Maccabees, la foto-intervista @ Indie-Eye 12-02-2012

I Maccabees sono uno dei gruppi del momento, forti del loro nuovo ottimo album, Given To The Wild, che porta il loro pop a completa maturazione andando a pescare dal meglio degli anni settanta ed ottanta. I cinque inglesi sono passati da Milano, ai Magazzini Generali, nella prima tranche del loro tour europeo, che li riporterà in Italia ad aprile e, speriamo, anche più avanti.
In quell’occasione abbiamo incontrato Hugo White, il chitarrista della band. Ecco cosa ci ha raccontato su Given To The Wild, festival ed hip hop.

Given To The Wild è il vostro terzo disco; lo si può considerare come il terzo passo di un’evoluzione, sia nel songwriting che nella scelta degli arrangiamenti, iniziata con Colour It In e proseguita con Wall Of Arms; pensi che si possa dire che questo è il vostro disco della maturità?
Penso di sì. Di sicuro posso dirti che ci abbiamo lavorato molto negli ultimi due anni e che ci sembra la cosa migliore che abbiamo fatto finora; è sicuramente il risultato del sentiero che abbiamo seguito già nei primi due dischi ma in questo caso c’è qualcosa di più, è il primo lavoro che sentiamo come totalmente nostro, come una vera espressione di ciò che siamo. Nei primi due album quando era il momento di scegliere come far suonare i brani e di fare scelte produttive non riuscivamo ad affrancarci da alcuni modelli, cercavamo di far suonare le nostre canzoni come qualcosa che avevamo già sentito. In questo caso invece avevamo in mente una nostra idea di suono, che abbiamo cercato di infondere nei brani quando ci abbiamo messo mano. Penso che ci siamo riusciti abbastanza bene, che sia davvero il primo disco che suoni “nostro” al 100%.

In quest’ottica, qual è stato il contributo di Tim Goldsworthy e Bruno Ellingham, che hanno partecipato alla produzione dell’album?
È una storia abbastanza lunga in realtà; quando abbiamo finito di scrivere l’album e avevamo una serie di demo dovevamo decidere come far suonare l’album, che suono dargli. Abbiamo deciso di non affidarci a produttori che di solito lavorano con band dal suono chitarristico; quindi abbiamo incontrato Tim Goldsworthy, che arriva da un mondo molto diverso, è un ragazzo molto interessante, ed abbiamo deciso di lavorare con lui. Evidentemente anche lui ha trovato qualcosa di interessante in noi, dato che solitamente non lavora con gruppi “indie”. Ha portato molte novità nel nostro modo di lavorare, a partire da un uso del computer che non avevamo mai sperimentato, rinnovando anche il nostro approccio a cose che facevamo già, ma che con lui abbiamo imparato a fare in un modo nuovo. È stato sicuramente interessante, abbiamo tentato di lavorare con lui e con Bruno Ellingham come ingegnere del suono, ma poi siamo tornati a Londra con del disappunto, perché quello che avevamo fatto non suonava come avremmo voluto che suonasse. Una volta tornati a Londra abbiamo speso un sacco di tempo in studio, da soli, cercando le soluzioni adatte per creare il nostro suono; alla fine ci siamo riusciti, ma è stata veramente dura perché il tempo a nostra disposizione per la consegna dell’album era ormai agli sgoccioli, mancavano meno di due mesi, quindi passavamo anche 16 ore al giorno chiusi in studio a lavorare.

Uno dei brani migliori del disco è Child; mi ha colpito in particolare il lavoro sul ritmo e sulla batteria in quella canzone. Sembra infatti che il brano inizi con un mood molto soul, ricordando cose di Marvin Gaye ad esempio, mentre poi diventa più rock’n’roll. Come avete lavorato su questa canzone?
Abbiamo iniziato a lavorarci circa quattro anni prima del suo completamento, partendo da un loop di tastiera fatto da Orlando, una cosa di pochi accordi lunga non più di dieci secondi. Rupert poi ci ha aggiunto una parte di basso, ma non siamo riusciti a farci altro per almeno quattro mesi, tentavamo di tanto in tanto di costruire qualcosa in più ma non ce la facevamo. Poi l’abbiamo abbandonata per un po’ di tempo e quando abbiamo ricominciato a lavorarci siamo finalmente riusciti a costruire qualcosa, inizialmente con un andamento rockeggiante; abbiamo quindi provato a rallentare un po’ il brano, ed è così che c’è stato questo ritorno alle radici soul che si sente all’inizio del brano. Pensavamo fosse un’atmosfera che si adattasse anche al resto del disco, che un brano del genere ci stesse bene, quindi l’abbiamo tenuto così, con questo mood.

Come singolo invece avete scelto Pelican. A cosa è dovuta la scelta?
Non pensiamo che quella canzone rappresenti il disco, però è la più diretta, ed è importante che un singolo abbia questa caratteristica. Le altre canzoni sono più profonde e necessitano di più attenzione, ma abbiamo bisogno che le radio passino la canzone. Non è un pezzo che odiamo, sia chiaro, ci piace, ma ci sembra qualcosa che rappresenta più ciò che siamo stati rispetto a ciò che invece siamo ora. Va bene come primo impatto col pubblico, poi però ci vuole più pazienza ed attenzione per apprezzare il resto del disco. (continua alla pagina successiva…)

Fabio Pozzi
Fabio Pozzi
Fabio Pozzi, classe 1984, sopravvive alla Brianza velenosa rifugiandosi nella musica. Già che c'è inizia pure a scrivere di concerti e dischi, dapprima in solitaria nella blogosfera, poi approdando a Indie-Eye e su un paio di altri siti.

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