Band chiacchieratissima, gli uomini: l’hype che li circonda è l’effetto del tam tam creato sul web grazie alle molte recensioni entusiastiche del loro sophomore album, il nuovo Open Your Heart edito da un’etichetta very cool, la Sacred Bones. È buffo constatare come da noi i soliti snobbetti li abbiano preventivamente stroncati, con commenti tra il sagace e l’acido che potete leggere sui vari social network. Noi non siamo né sagaci né snob, e per giudicare un disco cerchiamo sempre di non far caso alle voci, concentrandoci sulla sola musica. Dopo ripetuti ed attenti ascolti, ecco la conclusione: questo disco è una bomba. Se avete pochi spiccioli da parte e volete comprarvi un disco al mese, beh, sto mese sapete come spenderli. Partiti come un mostro a due teste del noise, The Men questa volta stemperano un pochino le asperità del proprio sound e scrivono una sorta di piccola enciclopedia del rock chitarristico underground a stelle e strisce; Open Your Heart ambisce alla statura di classico proprio in virtù del suo approccio totalizzante alla materia trattata: dentro il calderone – apparentemente caotico, in realtà certosinamente assemblato – potete trovarci il noise rock, il garage punk, il blues, l’alt-country, l’hardcore, l’heavy psych, riplasmati e suonati secondo lo stile personale della band. Per far questo, ovviamente, ci vogliono due coglioni grandi così. Turn It Around apre le danze con un riff garage punk che potrebbe essere uscito da un qualsiasi vinile della Crypt Records; Animal radicalizza l’assalto vomitando un numero noisecore blues ad un passo dall’hardcore. Dopo l’incendiario inizio, l’album scopre la sua vena più “drogata”; Country Song, a dispetto del titolo, è un riverbero drone blues da deserto con la sabbia nel naso, Oscillation un ossessivo kraut garage affine a certe ultime cose degli Oh Sees. Si ricambia atmosfera con la doppietta Please Don’t Go Away e Open Your Heart, due brani che sono puro indie rock scassone e svelto alla primi Flaming Lips–Dinosaur Jr, forse il momento melodicamente più “dritto” del lavoro insieme alla successiva Candy, sbarazzina country song (stavolta sì) solare e cantata con la paglietta di fieno tra i denti. Si prosegue alternando caterpillar tra l’asse Melvins-Black Flag (Cube) a litanie blues sommerse da coltri di chitarre (Presence) sino ad arrivare alla summa di tutto, ovvero l’omaggio a chi forse più di ogni altro ha rappresentato certe sonorità, ovvero i concittadini Sonic Youth: Ex-Dreams non avrebbe sfigurato su Daydream Nation, con le chitarre che si rincorrono frenetiche, i feedback, quella voce scazzata da slacker dei bassifondi. Poi tutto finisce, e la sensazione ben chiara è quella del discone bello pesante e longevo.