giovedì, Novembre 21, 2024

The Mohawk Lodge – Damaged Goods (White Whale Records, 2012)

Tra i tanti revival e recuperi di questi anni in ambito indie rock c’è stato anche quello dell’epos springsteeniano, capeggiato da Gaslight Anthem ed Hold Steady, che con modi e obiettivi diversi hanno riportato in auge l’idea di American Dream, di spazi, di autostrade da seguire per rincorrere il futuro e fuggire dal presente, di peccato e redenzione.
I Mohawk Lodge, progetto che gira intorno alle idee e alla penna di Ryder Havdale, sono canadesi, di Toronto, ma risentono comunque del fascino tutto statunitense appena citato. In questo loro quarto disco, Damaged Goods, è possibile infatti trovare dieci brani ben radicati nell’american sound di Springsteen e The Band, reso solo più garage e lo-fi da chitarre fuzzate e da scelte produttive che quasi sempre vanno a favorire l’immediatezza e una certa muscolarità rispetto alla pulizia e all’elaborazione.
Ciononostante il buon livello del songwriting di Havdale riesce ad emergere, forse perché in dieci anni di carriera i trucchi del mestiere li ha imparati abbastanza bene, forse perché il suo amore per questi suoni e per ciò che rappresentano è vero e sentito. L’unico grande appunto che gli si può muovere riguarda l’eccessiva brevità di molti brani, che restando attorno ai due minuti non riescono ad avvolgere l’ascoltatore e a creare attorno ad esso un mondo con tutti i crismi, restando poco più che bozzetti.
Il meglio dell’album si ha quindi nei brani con il minutaggio maggiore, in particolare Gold Rivers e 1000 Violins. Nel primo caso ci si muove su territori springsteeniani altezza The River con un tocco di aggressività in più e un motore ritmico inarrestabile, una perfetta colonna sonora per viaggi su highway assolate; nel secondo è il finale corale folkeggiante a convincere e a regalare un’ottima chiusura di album.
Gli altri brani mostrano potenzialità ma, come detto, non si sviluppano come potrebbero e dovrebbero, come nel caso di Light You Up, che ricorda i Cold War Kids del primo disco, con il loro senso melodico e il loro approccio narrativo in bilico tra tradizione e novità, ma che fermandosi dopo un paio di minuti diventa una promessa infranta.

Fabio Pozzi
Fabio Pozzi
Fabio Pozzi, classe 1984, sopravvive alla Brianza velenosa rifugiandosi nella musica. Già che c'è inizia pure a scrivere di concerti e dischi, dapprima in solitaria nella blogosfera, poi approdando a Indie-Eye e su un paio di altri siti.

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