venerdì, Novembre 22, 2024

The Uglysuit, intervista.

Foto di Francesca Pontiggia

In occasione della data milanese del 14 novembre, primo concerto di un più vasto tour  europeo, abbiamo incontrato e cercato di conoscere meglio The Uglysuit, giovane gruppo americano, autore di un esordio tra i più interessanti di questo 2008.

Siete una band relativamente giovane, avete tra i 20 e i 23 anni e questo è il vostro primo disco. Potete raccontarci brevemente la vostra storia, dalla fondazione del gruppo a oggi? Cosa vi ha portato a suonare? Quali sono stati i passaggi fondamentali della vostra crescita musicale?
Quattro di noi suonano da molto tempo, ma tutte le precedenti band in cui eravamo si sono sciolte velocemente. Ora abbiamo iniziato con questa nuova band, The Uglysuit. Quello che ci porta a fare musica è semplicemente il fatto che la amiamo; ci piace trovarci, suonare, fare jam e lavorare assieme per trovare qualcosa che suoni forte.

Incidete per la Touch & Go/Quarterstick, etichetta storica, spesso associata a suoni ben diversi dai vostri. Penso per esempio al noise di Shellac e Jesus Lizard, al math-rock dei Polvo. Come vi siete trovati a lavorare con questa label?
La Quarterstick è stata creata dalla Touch & Go perché aveva con sé gruppi come Shellac e Jesus Lizard e altri di quel tipo, trovandosi così nelle condizioni di dover mettere sotto contratto band comunque simili. La Quarterstick è stata avviata per far introdurre una certa differenza, ovvero che potevano esser pubblicate cose con suoni e impostazione differente; sono state scritturate band molto diverse dalle precedenti, come noi. Le band più nuove sono i Crystal Antlers, All The Saints o Sholi, arrivati da poco. Lo staff è assolutamente fantastico; per esempio il presidente della compagnia ci ha lasciato girare il nostro primo video sul tetto della sede, ed è stato bellissimo. In generale sono persone eccezionali e li ringraziamo per le grandi opportunità che ci danno.

Le vostre composizioni seguono un equilibrio tra melodie immediate e maggior complessità, anche all’interno dello stesso brano. In questo si può rivedere lo spirito tra pop e psichedelia dei primi Pink Floyd, per fare un nome, e di altre band di quel periodo. Cosa ne pensate? Cosa vi lega a quel periodo?
Possiamo dire che siamo tutti nati nell’era sbagliata. In generale, siamo tutti cresciuti ascoltando ed amando musica più o meno di quel periodo, ed è naturale che si rispecchi in quello che suoniamo ora.

Alcune code strumentali richiamano le jam, anch’esse tipiche di quegli anni. E’ una procedura di composizione che utilizzate o vi rifate a schemi più “rigorosi”?
Dipende, in realtà; facciamo entrambe le cose. Le canzoni sull’album le abbiamo scritte in gran parte tutti insieme, specialmente quando lo scopo è quello di ricercare un suono “epico”. Le parti più pop invece sono state scritte da una persona sola, a cui poi si è aggiunta la collaborazione degli altri. Ci divertiamo a comporre in modo diverso e per piccoli nuclei, tentando di legarli tra di loro se ci convincono così da raggiungere un risultato di maggior complessità, come se si trattasse di movimenti all’interno dello stesso brano.

L’approccio pop di cui parlavamo prima dà luogo a canzoni che, per la gran parte, generano una sensazione di ottimismo e di energia in chi è all’ascolto. E’ ciò che vi eravate prefissati?
E’ il nostro scopo principale; vogliamo far nascere un sorriso sul volto di tutti quelli che ci ascoltano. Cerchiamo di scrivere canzoni in grado di far emergere almeno una piccola parte delle emozioni più profonde di chi ci ascolta, magari qualcosa di non immaginato.

Il brano conclusivo del disco, “Let It Be Known”, è invece su atmosfere tipicamente post-rock, quasi a voler finire in maniera più introspettiva. E’ un’interpretazione che condividete?
Sì, volevamo chiudere l’album lasciando l’ascoltatore come in sospeso, suscitare una certa aspettativa rispetto al futuro. Vediamo “Let It Be Known” come il capitolo finale di una storia, che però non ha una conclusione definita, un trampolino per la prossima storia, e la fine di questo primo viaggio. Abbiamo scritto tutte le canzoni come parti di un concetto unico, e la nostra intenzione era quella di finire proprio in questo modo, con qualcosa di fluttuante ed epico.

Siete originari dell’Oklahoma, come una delle più grandi band degli ultimi 20 anni, cioè i Flaming Lips. Siete stati accostati a loro per un certo uso della psichedelia in ambito indie; cosa pensate di questo paragone? Sono un gruppo che, non solo per l’origine geografica, vedete come un modello?
Assolutamente sì, anche se fossero stati di qualsiasi altro stato; tutti noi amiamo quella band. Loro hanno definitivamente abbattuto le barriere tra le scene, ridefinito il concetto di “rock band psichedelica”. Il fatto che anche noi siamo dell’Oklahoma è solo una coincidenza.

L’uso del pianoforte e di altri espedienti melodici in alcune vostre canzoni vi allontana invece dal panorama musicale americano, avvicinandovi in qualche modo al brit-pop di qualche anno fa. Cosa ne pensate? Tra i vostri ascolti ci sono anche band di oltreoceano?
Onestamente, scriviamo ciò che ci sentiamo di scrivere. La gente può etichettare un suono come simile al brit-pop o ad altro, in realtà è solo ciò che ci è passato per la mente. Una nostra canzone, “Happy Yellow Rainbow”, è stata assimilata a una ballata brit-pop, ma non intendevamo assolutamente creare quell’effetto; probabilmente le influenze di quel tipo sono più a livello di subconscio. Nel mondo della musica c’è una tendenza a catalogare ogni cosa, dire “questo suona in quel modo”; in questo caso è andata così, ma non abbiamo mai pensato più di tanto a scrivere qualcosa legato al brit-pop.

Una delle esperienze che ha aiutato a farvi conoscere è stato il tour con Iron & Wine della scorsa estate. Potete raccontarci qualcosa di questa esperienza?
Un ricordo è legato al primo concerto: eravamo tutti assieme in un piccolo camerino, emozionati oltre ogni immaginazione; prima di allora non avevamo mai pensato di poter suonare davanti a 2300 persone e praticamente stavamo tremando. Poi è arrivato il tour manager di Sam Beam e ci ha detto “ragazzi, tra 5 minuti iniziate” e l’emozione è cresciuta ancora di più. E’ difficile abituarsi a qualcosa del genere, è incredibile vedere come tutta quella massa di pubblico sia cosi ricettiva rispetto alle vibrazioni che stai inviando mentre suoni. Inoltre Sam Beam è stato molto amichevole con noi, è davvero un grande.

Quello che inizia a Milano stasera è invece il vostro primo tour europeo, per di più quasi sempre come artisti principali (a parte un festival in Olanda). Cosa vi aspettate da queste date? Come pensate di trovarvi davanti ad un pubblico diverso?
Non ne abbiamo assolutamente idea. Il semplice fatto di trovarci qui lo viviamo come un sogno, girare il mondo assieme ai nostri migliori amici. Per il resto, pensiamo a suonare e a divertirci.

Sempre restando in ambito live, com’è il vostro approccio alle canzoni quando siete sul palco? Cercate di restare fedeli a quanto apparso su disco o, come dicevamo prima, lasciate spazio all’improvvisazione e a delle jam?
Ci sono molte differenze; vogliamo tenere separate le esperienze dell’album e del live. L’album è molto più “trattenuto” e di facile ascolto, in dimensione live invece jammiamo molto, non abbiamo mai suonato 2 set identici o simili. Possiamo aprire le nostre menti quando suoniamo insieme sul palco; ci sono volte in cui raddoppiamo la durata di un pezzo o di una sua parte.

Progetti per il futuro? Aspettative per la vostra carriera?
Tutto quello che capiterà andrà bene. Faremo un nuovo album nel giro di un anno e mezzo; raccoglieremo nuove idee nel frattempo e probabilmente lo realizzeremo per aprile-maggio del 2010, lavorandoci soprattutto durante la prossima estate.

Fabio Pozzi
Fabio Pozzi
Fabio Pozzi, classe 1984, sopravvive alla Brianza velenosa rifugiandosi nella musica. Già che c'è inizia pure a scrivere di concerti e dischi, dapprima in solitaria nella blogosfera, poi approdando a Indie-Eye e su un paio di altri siti.

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