giovedì, Dicembre 26, 2024

The Week That Was – s/t (Memphis Industries – Cooperative Music 2008)

L’attacco di Learn to learn, la traccia che apre il primo lavoro solista di Peter Brewis, non lascia troppi dubbi, è un incedere percussivo molto vicino a quella strana fusione di tribalismo ed elettronica pop che durante i primi anni ’80 si contraeva in un suono potente e riconoscibile grazie anche al successo di Peter Gabriel ma che si è lasciato dietro un sommerso molto vasto; una rilettura di generi attraverso il tritacarne postmoderno, il contrasto tra la vitale fragilità della musica etnica e l’elaborazione che questa subiva con l’impiego delle nuove tecnologie.

I vocoder, l’OBXa e le marimbas di Laurie Anderson, il Fairlight CMI di Gabriel e il suo lavoro etnomusicale , la ricerca di Eno e David Byrne in quell’oggetto insuperato che è My Life in The Bush of Ghosts e soprattutto il minimalismo sperimentale che usciva ed entrava dalle produzioni più mainstream, a partire dalla New Wave per le masse degli Heaven 17 sino ai Tears For Fears di Change. Peter Brewis, l’altra metà dei Field Music esce con un progetto solista ad un anno di distanza da quello del fratello David e rispetto a School Of Language siamo di fronte ad un lavoro dall’approccio molto diverso dove il possibile legame è rintracciabile solamente attraverso un songwriting stratificato che si serve di generi e sonorità per affrontare un percorso dalla notevole complessità narrativa.

The Week that Was è sicuramente posseduto da alcune ossessioni degli ’80 ma con radici e risultati non così consueti; L’ossessione ritmica modellata su Sat in Your Lap di Kate Bush che apre la già citata Learn To Learn è come un pattern che attraversa tutto l’album e trae linfa da una forma pop se si vuole in stretta parentela con il Thomas Dolby prodotto da Andy Partridge, ma che procede per innesti piuttosto che per citazione di un universo sonoro.

La triade Learn to learn, The Good Life, It’s all Gone Quiet è uno strano golem costituito con i pezzi e la schizofrenia di una cultura che si era già interrogata sul contrasto tra l’evoluzione tecnologica della civiltà occidentale e l’introduzione dirompente di strategie musicali preformali, non si trattava solamente di sottrarre intuizioni dal Calypso o dalla musica contemporanea, è il volto stesso del Pop, arte combinatoria per eccellenza, che riconfezionava tutto questo in piccoli territori del contrasto ad uso e consumo della nuova generazione elettronica; apparentemente innocui come hit dal sicuro effetto, inoculavano scienza, tradizione e fantascienza in un corpo mostruoso e mutante.

You blinded me with science, radio silence, commercial breakup era il repertorio del primo Thomas Dolby mentre sommerso da un muro di synths frullava l’ossesione Nerd per la computer music, il linguaggio televisivo, una strana passione archeologica per i gingilli pop degli anni 40/50 e si faceva produrre dal più Beatlesiano dei new wavers Britannici. Peter Brewis è un alchimista non da meno; grazie ad una tecnologia accessibile che ha sostituito l’ingombro orchestrale dei Fairlight con la portabilità di Pro-tools torna a quei suoni sfruttando un’intelligenza più incisiva e dolorosa di qualsiasi progetto come Feed the animals di Girl Talk, bluff dichiaratamente decostruzionista e inghiottito dallo smercio delle suonerie per cellulari.

Già da The Airport line si intuisce come l’introduzione di un quartetto d’archi funzioni come un transito e una mutazione tra storie sonore, il tentativo di fidarsi del Pop come terreno di estrema sperimentazione obliqua che è anche stato di Field Music e che si riferisce in questo senso soprattutto al lavoro di School of Language; la coda del brano è una straordinaria battaglia tra una tramatura ritmica che sembra sia stata isolata da The Dreaming di Kate Bush e un ossessivo e drammatico minimalismo orchestrale.

Lo stesso che ritorna nei crescendo delle due tracce successive, Yesterday’s paper e la bellissima Come Home, brano attraversato da complesse poliritmie, la cui concisione narrativa non imbriglia la ricchezza della scrittura, incollata su di un nucleo pianistico ripetuto all’infinito, sul quale si innesta orchestra, coro e mimesi elettronica di ritmi diseguali e fratti.

Vero e proprio Mr Music Head, Peter Brewis concepisce un album di extra-ordinario Pop, qualcosa che va oltre la piccola gemma confezionata dall’indiepop di massa; oggetto colto e immediato che finalmente gratta la superficie.

Michele Faggi
Michele Faggi
Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.

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