Prima di iniziare a parlare di questa formazione del Nebraska, della loro sovrarappresentazione femminile rispetto alle classiche band indie rock, di tutte le peculiarità del loro percorso artistico vorrei fare un annuncio. Proprio oggi, al cospetto psichedelico della copertina di Heavy Mood, quarto lp del gruppo, declamo l’avvento dell’indie pop rock, per come l’abbiamo conosciuto fino ad ora, nel revival anni ’90. Lo fa con timidezza, provando un’azzardo, non lo fa “rilevando tutta l’azienda”, come se si trattasse di un marchio da risollevare dalle ceneri. In questo disco sono due gli episodi che gridano allo scandalo: Love Riot, la marcia di apertura con chiare tendenze drum’n’bass e dub (sopiti dall’assenza di una sezione ritmica convenzionale: al posto della batteria due scarpe da tip tap ai piedi di Jamie Pressnall, simbolo dello sperimentalismo dada e pop dell’indie moderno). L’altro episodio è la successiva Heavy Mood, cantata dal fratello della ballerina Derek Pressnall, autore del giro di chitarra che ricorda tantissimo gli U2 periodo Zooropa e Pop. I synth vanno a legarsi a doppio filo a questo mood pesante, carico di sudore e colori fluo, di neo-hippies e droghe sintetiche. E’ come aprire il baule della nonna e riscoprire suoni impolverati e messi via in fretta, simbolo della pacchianaggine di un’epoca per la quale ci nascondiamo ancor’oggi. Tutto l’artwork del disco è imbarazzante, ma l’estetica indie contamina e trasforma in danzereccio figo quello che prima era danzereccio sfigato. Tirata fuori questa lunga parentesi, posso continuare con elencare tutto il resto, che riguarda il disco ed il gruppo. Parlando di quest’ultimo, sembrava strano che la formazione di Omaha potesse mettersi in gioco in questo periodo di rivisitazione. Il singolo Beat Control era in tema con l’affermazione dei Gossip su scala mondiale, e già si ascoltavano sezioni melodiche da I Don’t Wanna Wait, sigla della tragicomica serie Dawson’s Creek. Con questo disco l’innovazione forte poteva andare oltre, si poteva gridare alla rivelazione. Ma la cautela ha bruciato tutto il resto. All Kinds of Guns è in ritardo di parecchi anni sui Best Coast, così come pure Thicker than Thieves. Si salva Static Expressions, dove i campanelli da canzoncine di Natale rendono tutto più dolce. Episodi ballabili non ve ne sono più, anzi si punta sui lentoni in Hey Raimbow, in una umida I Believe in You si offre pezzetti di atmosfera per rendere culto a Aphex Twin. In Echo My Love rimane la malinconia dark dei Cure, sebbene il pezzo possa far benissimo parte di una pubblicità. L’avvicinamento alla batteria, percepibile in alcuni pezzi, e l’ascolto di altre realtà indie come gli Animal Collective distanzia il gruppo dall’obiettivo di ergersi come precursori della riscoperta nineties. Il disco rimane comunque forte, memorabile per quei due pezzi ma non aperto all’avanguardia nel mondo della moda pop. Forse non è il loro obiettivo primario, chi sa, ma l’occasione si spreca. Il prossimo album potrebbe essere troppo tardi per rimettersi in carreggiata.