Sempre che non disdegniate accorate apologie e qualora non li conosceste ancora, potrei presentarvi i siciliani Waines. Strepitanti, appassionati, fragorosi Waines. Quotidianamente sfiorati dal carro del divino Apollo che, in quel lembo di terra, è certo marci a velocità ridotta per far del sole una sillaba da lallazione, i tre supereroi palermitani stanziano ormai stabilmente sull’affollato poggio dei miei tormentati gusti. Non che ciò li possa assurgere a rango di eletti ma STO è il loro terzo disco, secondo sulla lunga distanza, concettualmente e cronologicamente susseguente a STU (e probabilmente prologo di STA, ndr) oltrechè bomba salvifica sganciata per demolire i dubbi di quei pochi, sciaguratissimi, delatori che ne volevano fare, a tutti i costi, l’ennesimo epigono indie. Tuttavia, non è di lacci, canovacci e stracci che qui s’argomenta bensì di rock&roll gonfiato a suon di pugni e trasfigurato in un meretricio di melodie maledettamente fedifraghe, tanto ardite da rimpiazzare l’accezione sofferente ed esoterica del blues con un triclinio di prelibatezze sixties ed il vizietto della cassa dritta. “Io mi ricorderò di voi” vien da promettersi mentre l’alone, spesso improbabile, delle associazioni di sorta, s’allontana traccia dopo traccia lasciando seco la convinzione che c’è del marcio anche in chi la fotografia del delta famoso la scruta, da anni, sempre e solo attaccata ai muri della propria casa. Con un abile gioco cromatico STO riporta in vita la cospirazione melodica dei Beatles associandovi ora i Black Keys ora i Kyuss, ora tutte le più belle cose degli anni sessanta, sì da stabilire per “avvincente” un nuovo significato. Utili colluttori dei miei gorgheggi mattutini ed imprescindibile manuale weird, le undici perle di questo disco rotolano nel fango grezzo e poi ancora in un letto di piume di struzzo mentre una cascata di strass ne pasticcia l’aspetto. Il tutto esasperato dalla produzione spectoriana, panza e decibel di Mario J. McNulty. L’effetto è quello di trovarsi catapultato su un’infuocatissima dancefloor con loop ciclici e brusche involuzioni, talmente saturati da farci prendere in seria considerazione il fatto che le nostre casse siano ormai sul punto di passar a miglior vita. Turn it On, Time Machine, o la cavalcata strumentale Inner View hanno questo dna, un po’ !!!, un po’ Rapture, un po’ Waines. Ad appesantire la sensazione di pienezza di forme e contenuti quella diavoleria di Afrix, troppo rovente per esser solo blues, troppo ben suonata per esser solo punk. The Pot ed Harsh Days hanno ancora più senso se Rolling Stones e Motorpsycho hanno spesso riempito le nostre playlists mentre in Round Glasses si gioca a travestire Billy Idol da apple scruff. Il tema acustico di Morning Comes prova invece a depistarci con ensamble folktroniche ma non v’è dubbio che i miei amici abbiano venduto l’anima al crocicchio e dunque basta semplicemente che si mantenga il patto, dopotutto ci pensa Birds a ristabilire l’equilibrio (ma ancora quanto beatlemania dietro di essa). Al delirio di Keep it Fast ed alle spirali lisergiche di 1876™Reprise viene così assegnato il facile compito di portarci allo sfinimento come si fa un po’ con i bimbi prima di acquietarli a nanna sì da restar un po’ soli con la propria donna per un fugace e rilassante abbraccio, o qualcosa in più, chissà? STO ci ha già sbattuto come le uova, per stasera direi che può bastare! Wainnnzzz!
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