“Per favore, togli il tuo coltello dalla mia schiena / e mentre lo fai non girarlo”. A quasi tre anni dall’ultimo lavoro in studio tornano i Wire, sfoderando come di consueto un frasario surreale, condito da massicce dosi di ironia caustica. Parlare di Red Barked Tree, senza tener conto del retaggio lasciato dalla band britannica al rock post ’77, è impresa davvero ardua. Del resto, sarebbe impossibile riassumere la carriera di un gruppo come questo – fra i maggiori indiziati nel processo di transizione dal punk alla new wave – nello spazio di un singolo articolo. Non basterebbero tre vite per ripercorrere l’attività di gruppo dei londinesi che, fra scioglimenti e rinascite, hanno passato più di trent’anni insieme a fare musica. Limitiamoci dunque ad inquadrare l’album nella cornice dell’ultimo decennio, quello che li ha visti tornare per la terza volta in azione, proprio mentre orde di novellini che ne plagiavano lo stile cominciavano a spuntare pressoché ovunque. Che dire? Red Barked Tree è un ottimo disco di pop à la Wire. Le composizioni evidenziano una notevole sensibilità melodica, accentuata da una produzione curatissima e da un suono insolitamente levigato. Colin Newman non ha perso lo smalto da supereroe della porta accanto, Graham Lewis sfoggia come sempre un tono caldo e confidenziale, Robert Grey (già Gotobed) incarna tutt’ora l’anello di congiunzione fra uomo e macchina. Sul versante “pulito” si fanno apprezzare particolarmente Please Take e Bad Worn Thing (entrambe cantate da Lewis), mentre A Flat Tent e Moreover sono efficacissime nel riportare a galla l’anima punkettona di Newman. Notevole, ma in fondo stiamo parlando dei Wire: personaggi che, con entrambe le mani legate dietro alla schiena, darebbero comunque del filo da torcere alla maggior parte dei loro epigoni. Eppure non si può fare a meno di notare che, nel disegno complessivo, qualcosa non quadra. Si tratta di un bel disco? Sì. Ma è un disco davvero necessario? Al riguardo ho i miei dubbi. Il suono brutale di Send aveva permesso ai nostri di annunciare il ritorno sulle scene, aiutandoli a farsi largo in mezzo alla folla con la delicatezza di un bulldozer. La svolta pop di Object 47, operata con gusto e mestiere, poteva avere un senso all’interno di un processo evolutivo. Ma qui la sensazione che i tre comincino a ripetersi è forte, e si trasforma quasi in certezza all’ascolto di Clay, praticamente un auto-plagio. Nel complesso, le atmosfere dell’album sembrano trarre ispirazione dal pop mutante dello storico Chairs Missing, ma patiscono la mancanza di una carica innovativa che, per forza di cose, non può più essere la stessa del 1978. Per carità, rimaniamo comunque un paio di gradini sopra la media attuale, ma constatare certe cose non può che dispiacere.