Avere un nome d’arte che chiama in causa un grande regista del cinema italiano e contemporaneamente restarne a debita distanza con l’aiuto di una parentesi. E dare un titolo al proprio album d’esordio che possa evocare un pericolo scampato quanto una mancata vendetta: si, siamo tutti salvi, ma con noi ci sono anche quelli che meritavano di cessare qui e ora la propria esistenza. L’angoscia dell’incertezza (postmoderna?) pervade questo Non è morto nessuno, dell’umbro Emiliano Angelelli, in arte elio p(e)tri. Due anni di lavoro sono stati necessari assieme al fido Matteo Dainese detto anche “Il cane” per costruire questo canzoniere dalla produzione curatissima, “italiano solo nei testi”, come tiene a precisare. Poche parole per delineare una storia, come nell’attività cronistica, tant’è che Angelelli di professione fa il giornalista, e una musica ammaliante e passionale ad accompagnare questi versi: ecco come si rivoluziona o si demolisce il cantautorato italiano. Arrangiamenti molto ricchi ma non carichi, che non ostruiscono come soleva fare Phil Spector ma piuttosto soffocano, coprono la visuale, inducono alla resistenza e al proseguimento dell’ascolto a denti stretti; come In Raimbows dei Radiohead ma senza barriere. Requiem dell’amore, che già dal titolo è tutto un programma, esprime al meglio questa sensazione, come pure l’introduttiva bradipo. Tra la batteria che fa gli straordinari e i violini che stendono veli di malinconia, la voce di elio p(e)tri, non particolarmente risaltante, decanta storie vere, verosimili e impossibili; di uomini volanti, ossessionati di Tolstoj e macellaie di cuori infranti. Code strumentali devianti aumentano la schizofrenia (compresa il colpo ironico di genio del finale di La ricetta dell’uomo perfetto): sono pur sempre uno stratagemma per rendere unico ogni episodio, quando non se ne abusa (poche volte). Ascolto interessante, ma tenetevi al riparo da possibili lievi attacchi di claustrofobia.