A due anni e mezzo di distanza da Entertainment In Slow Motion tornano i Ka Mate Ka Ora con il loro terzo album, Violence. Nonostante quel che il titolo potrebbe far pensare il trio toscano non ha subito una svolta hardcore: i suoni che si incontrano nel disco sono infatti quelli tipici della band, legati a shoegaze, post-rock e a quello che viene comunemente chiamato slowcore mettendo sotto lo stesso cappello esperienze assai diverse come quelle dei Low, dei Codeine e dei Bedhead, forse con un po’ più di aggressività in un paio di episodi, ma non tale da giustificare il richiamo alla violenza di cui sopra.
I Ka Mate Ka Ora proseguono dunque sulla strada che hanno scelto ormai un lustro fa e lo fanno senza esitazioni, regalandoci una decina di canzoni in cui dimostrano di aver introiettato perfettamente il verbo della lentezza e della sospensione atmosferica, della creazione di paesaggi mentali fuori dagli schemi. Tutto questo con ancor maggiori maturità e capacità di scrittura rispetto a quelle mostrate nei due episodi precedenti, fatto che li porta a raggiungere livelli veramente considerevoli sia nei brani più brevi (che in precedenza non sempre erano riuscitissimi), che in quelli più lunghi, solo un paio ma veramente ottimi in questa occasione.
Il primo brano, Flowers, è uno dei due più aggressivi citati in precedenza, un bell’esempio di rock psichedelico virato shoegaze dalle parti dei Black Rebel Motorcycle Club, anche se con meno epica americana al suo interno. We’re Finally On Our Own rallenta la corsa, portandoci in atmosfere care ai Low, con la chitarra a creare spazi sognanti accompagnata da un drumming secco e preciso. Ancor più marziale è la batteria della seguente Birdy, al servizio di atmosfere dreamy in cui poi va a sciogliersi e dove per una volta sono le voci ad avere un ruolo importante nella creazione della melodia, tre minuti da batticuore. Stessa durata per la successiva The Lobster, che pulsa new wave e riporta la chitarra nebulosa e distorta in primo piano. Last Words si spinge in territori Slowdive, col suo approccio aggressivo ma di classe alla materia shoegaze. Jasmine’s Lullaby è invece un quadretto psichedelico che richiama le esperienze buckleyane (di Tim, naturalmente) già riportate alla luce in questi mesi dai conterranei King Of The Opera (forse non a caso Alberto Mariotti in passato ha collaborato con i Ka Mate Ka Ora). Daisies Wine ci riporta in zona wave, con una chitarra dolente che ricorda i Cure e ancor di più i Jesus & Mary Chain nei brani che prendevano ispirazione dal gruppo di Robert Smith. The Funeral March Of The Whales è il primo dei due brani lunghi (supera infatti i sei minuti), un serpente che avanza strisciando in un mare di oscurità e chitarre claustrofobiche dove nemmeno gli interventi vocali servono a dare un po’ di luce, un perfetto esempio di inquietudine portata in musica. Dopo i tre minuti di Dreamer Of Pictures, che ci riporta ai colori acidi già presenti in Jasmine’s Lullaby prima di esplodere in un muro My Bloody Valentine, arriva il gran finale, con gli otto minuti di Mistake Song, gran bel viaggio in cui tutti gli elementi del disco si riuniscono dando un monolite di grandissima intensità: psichedelia, lentezza ed accelerazioni, oscurità e luce tutte assieme in una canzone che è un piccolo capolavoro e il sigillo su un terzo album che conferma una volta di più la statura dei Ka Mate Ka Ora.