Ciò che colpisce al primo ascolto è una scrittura fuori dal comune: musica e testo, dove la prima non può essere valutata separatamente dalla seconda. Questo è il primo elemento, non l’unico, che accomuna Le Luci Della Centrale Elettrica ai grandi nomi del cantautorato italiano. Un’altra caratteristica più sottile ma altrettanto evidente è una netta inattualità che pervade l’intero album e che sul piano estetico si esprime attraverso un audace impasto melodico che trita senza alcun timore reverenziale Rino Gaetano, i Massimo Volume, i CCCP-Fedeli Alla Linea, nonché l’omonimo e più noto Vasco. Anche l’immaginario evocato dai testi sembra incidere su un piano trasversale rispetto all’attualità e allora ecco che si passa con disinvoltura dalla lotta armata agli acquisti in discount, dai funerali di Berlinguer alla guerra in Iraq, da Chernobyl ai Ser.T., per descrivere un panorama articolato e che si potrebbe immaginare tutto sommato distante da un ragazzo così giovane. In realtà le canzoni de Le Luci Della Centrale Elettrica danno voce a un malessere profondo che non è solo quello di una persona, né tanto meno quello di una generazione, ma quello di un contesto storico – il nostro – in cui sembra essersi smarrita una continuità di senso tra un passato recente che sembra lontanissimo e un presente paradossalmente inafferrabile, refrattario e resistente alla comprensione. Qui non si contempla lo sfacelo dall’alto di un luogo sicuro, né si lancia un grido di disperazione dall’inaccessibile profondità di un abisso. Le Luci Della Centrale Elettrica si situa in superficie, senza “trucchi” o protezioni, ed è per queste che le sue canzoni si sentono così vicine e fanno tanto male; la superficie increspata di uno specchio in frantumi che riflette gli eventi e ne restituisce il senso deformato in un’immagine moltiplicata per mille.
“Cosa racconteremo, ai figli che non avremo, di questi cazzo di anni zero?” Anche la parola afferma un’impossibilità del dire e ne nega il senso mentre lo annuncia: “Canzoni Da Spiaggia Deturpata” è una pietra tombale calata sul decennio senza avere neanche la pietà o il buongusto di lasciarne terminare l’agonia. Un ascolto doloroso e inevitabile.