In quel di Brooklyn, si sa, l’ispirazione non manca. Dal 2004 i Takka Takka, con le loro formazioni altalenanti, partecipano al fervido clima indie-rock newyorchese, lasciando intravedere una vena creativa che, senza arrivare ad essere atipica o dissonante, riesce a colpire in maniera peculiare. Migration è di fatto il secondo album della band, a quattro anni di distanza dal loro debutto autoprodotto We Feel Safer at Night, e giunge in Europa ben due anni dopo l’uscita statunitense. Il disco è prodotto da Sean Greenhalgh, batterista dei Clap Your Hands Say Yes, band-mentore del gruppo con cui nel 2006 i Takka Takka hanno intrapreso un tour negli States. Il lavoro prende l’avvio dall’ottima Monkey Forest Road, che da una morbida apertura a base di voce e concitate percussioni sfocia in un mood più oscuro in cui le chitarre si intrecciano freneticamente, mentre un pianoforte dimesso echeggia da lontano: una via di mezzo tra i primi, terrigni Yeasayer e le suggestioni del Peter Gabriel dei primi 80. La successiva, scoppiettante Silence attrae ancora per la componente ritmica, qui a sostegno di un chorus finanche orecchiabile, mentre The Takers si perde in atmosfere più trasognate e inconsistenti. In Everybody Say indie-rock e dream pop si prendono per mano creando un clima distensivo vagamente radio-friendly, mentre l’interludio strumentale (Optimists Were Right), più del successivo, elettrizzato (Optimists Were Wrong), rimane un po’ inerte nella sua natura frammentaria. Convince la cupezza di Homebreaker, che attacca come un trip allucinogeno e d’improvviso assume connotati funky, confermando l’abilità della band nel ribaltare, quasi bipartire le loro canzoni con sapienti rimescolamenti degli arrangiamenti. La pioggia di chitarre di Fall Down Where You Stand è interrotta dall’inusuale, isolata Lion in The Waves, un pezzo quasi lo-fi, centrato sulla chitarra e la voce di Gabe Levine, intrisa di abbandono, pur nel suo circondarsi di controcanti, alla maniera di certe registrazioni in bassa fedeltà del primo Smog. Con One Foot In A Well tornano le sonorità più vitali del disco, mentre in Change, No Change è la dolce voce di Levine a intessere un mood profondamente nostalgico, da corsa in treno, proseguito dalle tinte tenui di You And Universe, che nonostante il crescendo luminoso della chitarra a metà del brano, chiude il disco con fare dimesso, intorpidito. Migration nel complesso non delude grazie alla pulizia degli arrangiamenti, per l’accuratezza delle composizioni e per l’aura quasi-world che compare in alcuni brani, arricchendoli di spunti curiosi. L’auspicio è che faccia da ponte per una discografia futura in grado di radicalizzare le componenti meno usuali del progetto Takka Takka, rendendolo sempre meno assimilabile al mare magnum dell’indie-rock e più vicino all’imprevedibile.