Mamme. Scomparse troppo presto o finite per reggere il peso di famiglie incasinate; mamme affaccendate, sacrificate, apprensive, gioviali, affettuose. Un disco dedicato alle proprie mamme qui da noi – paese di mammoni per definizione – necessariamente smuove trasversalmente ben più di un cuore. Se poi il disco in questione è del calibro del nuovo Menomena, lo sconquasso emotivo è garantito. Il duo di Portland (rimasto orfano di Brent Knopf, il quale ha lasciato la band al termine di un difficile periodo di crisi che ha portato la stessa sull’orlo dello scioglimento), ovvero Justin Harris e Danny Seim, registra un lavoro lungo ed intenso, sinceramente sentito e suonato in maniera catartica, quasi a voler simbolicamente chiudere un periodo di vita particolarmente tribolato. Il risultato è un disco emotivamente aggressivo, ben più del precedente Mines (2010). Non pensate però a chitarroni distorti e fragorosi (anche se qua e là, come nell’iniziale Plumage, ci sono pure quelle): l’emotività si gioca molto sul piano delle interpretazioni vocali – equamente divise tra i due – sulle ritmiche ben sostenute, sui crescendo mai scontati dei brani. “Moms” suona indie, ma non è un indie che si guarda snobisticamente le punte delle scarpe o si chiude autisticamente nella propria cameretta, piuttosto rifugge le facili soluzioni, il ritornello scontato o il bridge banale. Non troverete nulla di ciò, bensì una costruzione dei pezzi che si rifà alle big bands dei Novanta, due su tutte: i Deus periodo The Ideal Crash (cioè appena fuori le follie dadaiste dei primi due album, ma ancora non troppo invischiati nel mainstream) e le delizie notturne dei Mercury Rev di quel disco magnifico che è Deserter Songs. Vertici del disco: gli umori amari della ballata pianistica Heavy Is A Heavy Does, il funk moderno di Giftshoppe, le affascinanti orchestrazioni di Skintercourse, tra pop dal sapore d’Africa e break jazzistici.