Paul Anka – “Rock Swings” – Verve 2005Il rock gira, e Paul Anka lo sa meglio di qualsiasi ventenne colpito da eccitazione ormonale in eccesso per le presunte innovazioni di un combo dedito a nuove masturbazioni elettro-statiche. Si perché potrebbe affacciarsi desiderio e tentazione per un nuovo capitolo ballardiano, istruzioni incluse, sui metodi consentiti per sopprimere l’adolescenza, se non fosse già questa a prodursi in proprio con un teatrino di auto-enunciazioni. Rock Swings raggira, appunto, un gioco al massacro condotto impietosamente sul corpo di quattordici tracce di classic rock a suo tempo teen oriented, ridotte a pallidi simulacri; un’operazione così potente da seppellire i suoi referenti sotto una coltre ingiallita dal tempo. Paul Anka, 64 anni, licenzia per il marchio Verve uno degli album più spietati e indipendenti dal cancro della tendenza di tutto il 2005, 58 minuti di musica davvero classica, strappata alla sclerosi del tempo e con una tracklist rilucente per geniale banalità. In ordine sparso; l’incipit con l’attacco rollante di Eye of the Tiger, la cui riesumazione avrebbe potuto trovare collocazione in quelle raccolte da sopravvissuti che fanno da contrappunto alle più diffuse televendite; sotto l’effetto di Paul Anka in veste di produttore esecutivo e tra le mani esperte di Randy Kerber ci troviamo catapultati in un mondo senza tempo, dove lo standard non è affatto tale perchè rivendica con ferocia la capacità di creare musica per via virale; filosofia del contagio praticata con dedizione in 50 anni di musica popolare Americana, sino alle meraviglie dell’r’n’b di massa contemporaneo. Ma è con la versione di Jump, che il luogo comune di classic rock viene da subito rovesciato come un calzino un po’ puzzolente; a costo di risultare villano e iconoclasta, è noto che la sopravvalutazione di un fenomeno è determinata in gran parte dal contesto di diffusione, e Van Halen, come del resto i Queen, seminano alcuni dei loro classici nella banalità epica del volume da stadio. Rock’n’roll?
Non direi proprio, piuttosto musica per ascensori capienti o megastore alimentari svuotati dal caldo cittadino e dall’aria condizionata pompata al massimo, che spesso, mostrano il loro punto debole nell’appiattimento degli arrangiamenti. Se prendiamo un brano come Not Fade Away di Buddy Holly, l’idea di arrangiamento e R’n’roll prende la via di una riconciliazione perfetta.
Jump! Paul Anka vi costringe a saltare con un rat-rat-ratattack languido e infame, interpretando lo spirito del miglior David Lee Roth, si proprio quello senza gli orpelli metallizzati dei suoi soci.
I got my back against the record machine
I ain’t the worst that you’ve seen
Ah, can’t ya see what I mean?
La retorica lagnosa di Everybody Hurts in mano a questo combo di swing-swindlers viene maciullata nella traduzione più adatta che fosse possibile operare; il passaggio necessario al pezzo da struscio. E Paul Anka mantiene un appeal vocale per niente senile e capace di frugarti nei pantaloni per afferrarti dove è più gradito, con la classe di un grande cerimoniere naturalmente. Non c’è tregua, di nuovo una hit a velocità roll; l’attacco è ancora più piccante di Jump! ma a farne le spese è Wonderwall degli Oasis; una vera e propria isola-parco dei divertimenti, un esempio di metacritica fulminante sul cadavere afono di Lian Gallagher; un brano è inconsistente? Bene, assestiamo la pompa di un orchestra à là Bernstein, e una linea vocale che non faccia degli accenti un accessorio casuale, una miscela talmente irresistibile da alimentare il desiderio di inseguire qualcuno a caso per la strada, giusto per inclinazione al ritmo. Il ritmo si abbassa, ma non si arresta; traccia 6, è possibile smorzare l’illuminazione, utile se dobbiamo osservare gli effetti di un eclissi; Black Hole Sun dei Soundgarden, il brano chiave di questa opera cesellata con il bulino che è Rock Swings. Dopo un minuto e trentatre secondi di soffici promesse, ecco il giro che raggira, uno stacco assassino ci colpisce alla nuca; ma non è tanto l’esplosione dell’orchestra che lavora su altre magie vecchie e nere tutto sommato riconoscibili, è la voce di Paul che produce uno Swing davvero sorprendente avviluppato al senso lirico delle parole.
In my shoes
A walking sleep
And my youth
I pray to keep
Difficile descrivere l’indescrivibile, ma lo strascico che parte da Shoes e arriva a Youth è un capolavoro di tessitura e di esplorazione del senso (nel suo doppio significato) da far impallidire quell’allocco di Michael Bublè, erede di una generazione che non ha ancora capito che un cocktail composto da due schizzi di vodka + bitter + rum abbondante e uno spruzzo d’aceto non è roba da portare a casa per farsi le frizioni. That old black magic, si diceva. Giovanni Bongiovanni e la sua It’s my life, sono affrontate con la stessa sfacciataggine, anche perché l’inciso It’s my life / It’s now or never / I ain’t gonna live forever / I just want to live while I’m alive ha una consistenza fonica e laica che poteva essere interpretata solo da Dean Martin con percentuale alcolica al 70%; il miraggio auditivo è quello di Ain’t That a Kick in the Head ed è l’introduzione a tutto l’album. It’s a sin, traccia numero 7; i Pet shop Boys ridotti a Bacharach, che in fondo è molto più di quello che si meritano, passa leggera, grazie a un parassita di bossanova che striscia sottopelle, molto meno leggera del ticchettio pluviale prodotto dai polpastrelli di Kerber su quella True con marchio Spands che davvero restituisce a quel fenomeno estivo il giusto peso; c’è una perversione di fondo che mi fa pensare più agli Style Council o ai Redskins e a tutto quello di buono che il Pop inglese era capace di produrre. Come se per un virus beffardo a True e al songwriting dei fratelli Kemp si fosse attaccata un’anima swinging e londinese che era praticata altrove e meglio. True sembra perfetta per la superorchestra di Paul Anka; quel ah-ah-ah-ahhhh-ah si appiccica come una corrente umida. Allora quell’annichilimento dell’estetica punk che è Last Days di Gus Van Sant davvero può essere il collante tra queste due gigantesche ricognizioni nel tempo, cosi distanti e simili nel contagio dei segni? Mi piace immaginare di si, Smells Like teen Spirit striscia con la perfidia del Mancini di Charade e le lusinghe del miglior Lalo Schifrin. Incredibile come Hello, hello, hello, hello, how low? che è l’inno del verseggiare sadcore, possa innescare il classico schiocco tra pollice e medio.
Here we are now entertain us
I feel stupid and contagious
Contagioso, l’unica parola che potrebbe venire in mente per l’influenzale versione di Eyes Without a Face, di nuovo il fantasma di Bacharach e Paul in forma smagliante che duetta con i raddoppi orchestrali in un inciso che non avrebbe avuto altra speranza che l’oblio.
Invece.
Invece manca My way, quel brano strappato da Sid Vicious a chissà quale altra tradizione; siamo stati truffati per anni, ecco il Rock che gira.