I Mombu sono composti da Luca T. Mai e da Antonio Zitarelli, rispettivamente sax e batteria dei gruppi monosillabi Zu e Neo. Il loro incontro è stato definito come voodoom, connubio tra quanto di più potente e caustico il recente passato Occidentale avesse da offrire e quanto di più rudimentale, primitivo e vitale ma anche magico e cerimoniale il remoto passato Africano potesse donare. Abbiamo parlato con loro lo scorso 10 Dicembre al Circolo Arci Ponterotto (FI), nella data che segue il tour per l’eponimo primo disco Mombu, e abbiamo provato a capire la nascita e gli sviluppi di quest’incontro-scontro tra Nord e Sud del mondo. Intervista di Elia Billero, foto di Elena Venturi.
Siete batteria e sassofono: come sono le dinamiche di un gruppo formato prevalentemente dalla sezione ritmica minimale e poi dal sax che deve provvedere a fornire sia linea melodica che assoli. Quali sono le dinamiche che compongono un gruppo come il vostro? Nel concerto vi ho visto molto presi ognuno dal proprio strumento, non c’era troppo attenzione dell’uno verso l’altro: come vi accordate tra di voi durante il concerto?
Luca: essere in due ci ha aiutato molto. Il progetto Mombu nasceva su un’idea di formare un’orchestra percussiva, ma poi per budget e tempo abbiamo deciso di rimanere in due. E in due il lavoro è molto più spedito che in tre o quattro. Il gruppo si basa tutto sull’esperienza ritmica. La nostra è un’idea ritmica africana che si mescola alle nostre esperienze hardcore; l’unico paletto che ci siamo imposti è che non avesse un sapore anni ’70, stile prog.
Antonio: la differenza che c’è è che gli spazi improvvisativi ci sono ma sono regolati da strutture molto rigide.
Free fino a un certo punto, quindi
Antonio: diciamo che di free non c’è quasi niente. Gli assoli non sono preparati, ma comunque si inseriscono su una struttura comune. Suonando ci lanciamo degli input a vicenda, da un determinato punto si parte e si va ma comunque si ritorna sempre alla stessa struttura.
Vi rifate alle sonorità afro, e penso che abbiate studiato e approfondito questa cultura che è una cultura altra rispetto a quella di provenienza, quella occidentale. Vorrei sapere le differenze principali che avete trovato tra i modi di comporre e di suonare tra Europa e Africa, mettendo a confronto le vostre esperienze passate con quelle attuali.
Luca: per quello che mir iguarda è stato molto difficile approcciarsi, perchè si deve pensare in tutt’altra maniera. E’ stato molto bello imparare, andare alle prove, lavorare sulle cose e mettersi in gioco. Il fatto che Antonio abbia studiato con Don Moye (n.d.R. famoso percussionista e batterista americano esperto di strumenti africani), e abbia fatto un lavoro specifico sull’Africa ha fatto sì che noi potessimo sviluppare la nostra idea, lavorare sulla nuova materia, sbatterci la testa.
L’input l’ha dato Antonio per questo progetto?
Antonio: in realtà sono diversi anni che ne parliamo. Parlarne significa anche passarci gli ascolti. Ovviamente anch’io scrivo delle cose, ma poi le rielaboriamo sempre insieme. Per quel che mi riguarda, ciò che ho ritrovato è che mi piace sia il jazz che l’Africa che i suoni moderni. Nel jazz trovi l’improvvisazione, nell’Africa c’è una seria disciplina. Ci sono delle strutture durissime.