Gli anni ’80. Mitologici e temibili ad un tempo. Il decennio del riflusso; della danza fluorescente sul limitare di quegli abissi post ideologici che informano ancora l’attuale contemporaneità; culla di quel caos culturale, sociale, storico, che nel Bel Paese ha avuto i suoi estremi, da un lato nella strage di Bologna (2 Agosto 1980) e, dall’altro, nella propaganda strisciante della berlusca culture, via PSI, (sempre straniante ripensare ai Puffi come bieca operazione pseudo politica diretta alle generazioni in erba, al pari di un Lucio L’Avanguardista…); il buco nero del tardo ‘900, che ha assorbito e ridotto in delirio plastico le istanze culturali del secolo breve; che ha rivenduto a carissimo prezzo l’idea, antica di secoli, di un bene collettivo totalmente fondato sull’interesse del privato.
Innegabilmente, però, gli ’80 furono anche bacino di esperienze artistiche, che dall’estetica (aspetto fondante degli anni dell’edonismo sfrenato come valore immanente e dagli effetti duraturi) si mossero sino alla forma, dando luce a fenomeni spesso discutibili e persino deleteri ma, altrettanto spesso, di enorme caratura. In musica, com’è noto, il decennio sintetico viene comunemente associato al prodotto inteso come più rappresentativo: il pop elettronico: affermazione dell’attimo fugace attraverso suggestioni da dopo Kraftwerk, volto a comunicare un’idea di modernità orientata verso un futuro prossimo venturo, e non (solo e non sempre o, meglio sarebbe dire, quasi mai) come sarcastica osservazione politica del proprio evo, com’era per Ralf e Florian, ma nell’ottica di una consumazione fulminea, acritica, a scanso di ogni dietrologia. Una consumazione veloce come quella del Moloch ottantino per definizione: l’hamburger. Proponendo così, anche attraverso l’arte popolare (che è sempre termometro delle mutazioni sociali), un modello di vita subordinato ai ritmi produttivi di un sistema lavoro da incubo distopico. Paradossalmente, però, in virtù di una scrittura media ancora legata a principi passati, ancora in qualche misura vincente sulle logiche assolute del mercato, il suono dell’effimero, il synth pop propriamente detto, ebbe tra i suoi alfieri autori che oggi non possono che apparire enormi: Pet Shop Boys, Tears For Fears, Duran Duran, Bonski Beat, gli stessi Human League e così via, furono, anche solo per brevi istanti, capaci di incidere sull’immaginario colletivo, attraverso brani di grande levatura, di splendida sensibilità pop, al punto da divenire parametro in uso ancora adesso (quando non modello vero e proprio) ed informando fenomeni da grandi numeri (Lady Gaga) così come realtà off come, per non dirne che due, Ariel Pink o Casiotone For The Painfully Alone, intere schiere di musicisti elettronici, fino alla sublimazione nell’asintoto ottantesco del cosiddetto hypnagogic. Ma i Talk Talk stanno altrove. Protagonisti di una delle parabole più enigmatiche che si conoscano: partiti come gruppo da alta classifica e tramutatisi nell’arco di pochi anni in esperimento aperto di minimalismo applicato; di pop da camera; di pre-post-rock in divenire; riuscendo ad eccellere sia nella prima che nella seconda incarnazione, con opere di perfezione assoluta. Con una canzone, almeno, che ne ha scritto il nome nella storia della musica da hit parade in eterno: Such A Shame (ad un tempo: perfetto inno festivalbariero e profondamente altera) e due album (Spirit Of Eden e Laughing Stock), di grazia adamantina, d’inventiva oltre umana, di arte purissima, che hanno elevato la sigla nell’empireo della musica tutta.
Del resto, non poteva essere altrimenti, con un frontman come Mark Hollis, con il suo fare grottesco e la sua (splendida, inarrivabile, unica) voce nasale; schivo e bruttino, molto lontano dai gel lascivi di un Simon Le Bon, che scriveva il testo del loro brano più celebre ispirandosi a L’Uomo Dei Dadi di Luke Rhinehart (ma mai dimenticare che dietro Wild Boys c’era Burroughs), che amava citare Sartre nelle rare ed indolenti interviste e che avrebbe firmato con il suo unico ed omonimo disco solista, il capolavoro assoluto.
Riconosciuto, ormai da anni, il valore seminale della band, specie, appunto, per ciò che riguarda il suo periodo più sperimentale, era naturale attendere prima o poi un doveroso tributo; sebbene questo arrivi con notevole ritardo, rispetto a quando il nome Talk Talk all’inizio del nuovo secolo, riprese a circolare, citato come pietra d’angolo da innumerevoli e disparati artisti che in Spirit Of Eden e Laughing Stock trovarono una delle chiavi di volta di quel suono peculiare che Simon Reynolds battezzò, spocchiosamente, post-rock (che oggi si ha persino il coraggio rivalutare in negativo, se non proprio sminuire). Un tributo dovuto, quindi, ma che non sembrerebbe particolarmente sentito, giacché dello spirito dei Talk Talk, che si vorrebbe evocare sin dal titolo, nelle venti tracce presenti, rimane poco; molto poco. E quel poco proviene dai nomi più accreditati, con rarissime punte d’eccellenza.
La maggior parte dei convitati, si attiene piuttosto fedelmente al brano prescelto, innescando così un inevitabile confronto con l’originale e, com’è facile supporre, venendone irrimediabilmente battuti. E’ il caso, ad esempio, di Lone Wolf e della sua Wealth posta in apertura del primo cd: fedelissima ma proprio per questo, spenta in una copia senz’anima, pur rimanendo una delle prove migliori. Male fanno invece gli Zero 7, andando fuori tema già dalla seconda traccia, con The Colour Of Spring, che si manifestava come un miracolo ma nel disco solista di Hollis, rivestita di inutili orpelli psycho-gospel; così come malissimo fanno i Recoil (presenti anche con una superflua Dum Dum Girl) a mutare Inheritance in space dub con le voci di Linton Kwesi Johnson e Paul Marshall.
Evidente, che l’intento della raccolta sia quello di tentare di coprire le tante sfaccettature del complesso suono Talk Talk, attraverso proposte varie, sia per provenienza che per esiti, attraversando uno scibile che va grossomodo dal pop patinato di nomi come The Tenfivesixty (con una It’s My Life che pare più una cover della cover dello stesso brano fatta anni orsono dai pessimi No Doubt) o di Lights (che traghetta, calligraficamente, la già di per sé non eccezionale, Living In Another World dalle classifiche dei tempi ai lustrini delle X-Factor di oggi), giù, giù, sino al post nudo e puro di Zelienople (con una The Rainbow oscura e sospesa, come da tradizione del gruppo chicagoano, con coda ambientale, vicina all’originale ma più idealmente che di fatto) e Do Make Say Think, tra i pochi coinvolti, probabilmente, ad avere davvero dei cromosomi Talk Talk all’interno del proprio patrimonio genetico, sebbene la loro New Grass variata in chiave Constellation dice poco o nulla sia della band omaggiata che di loro stessi.
In mezzo si ritrovano bizzarrie come la deliziosa Give It Up di King Creosote, trasformata in un saltellante folk tra Devendra Banhart e Paul McCarntey; April 5th che il Matthias Vogt Trio traduce in uno strumentale jazz da happy hour; il mantra psichedelico di Tapehead proposta da The Acorn o Time It’s Time di Lia Ices (svenevole electro eterea Tori Amos/Enya).
Tra i buoni vanno citati anche i Turin Brakes che, pur eccedendo con l’enfasi, regalano una sentita Ascension Day variata in blues acustico; The Last Dinosaur con una pregevole Runee II o The Lovetones con una The Party’s Over, dall’omonimo ed ingiustamente bistrattatissimo esordio della band (disconosciuto dallo stesso Hollis), che nella sua assoluta semplicità brit senza pretese, è tra le prove più godibili del lotto.
La joint venture tra Fyfe Dangerfield, Robbie Wilson e Thomas Feiner si produce, invece, in una The Rainbow dark, che pur muovendosi con estrema eleganza tra Cave ed Antony nella prima parte, gonfia poi in un crescendo d’archi che snatura di molto il senso stesso del pezzo. Tutto il contrario del sodalizio estemporaneo tra Davide Rossi, Nils Frahm e Peter Broderick che, recuperando It’s Getting Late In The Evening dalla bside di Life’s What You Make It, realizzano un piccolo gioiello di suggestioni Wyatt, retto com’è da una levità che rischia di superare in bellezza persino l’originale e sul quale la voce di Broderick si staglia tenuamente con la solita inattaccabile personalità.
Quasi drammatica la lotta tra S.Carey e Richard Reed Perry, che evidentemente confondono la semplicità con la facilità, e le loro rispettive versioni di I believe In You (per inciso, una delle canzoni più belle che si possano ascoltare in una vita intera) la quale riesce quasi ad emergere in tutto il suo splendore, malgrado la copia carbone del primo e gli inutili melismi del secondo.
Un autentico capolavoro, però, Spirit Of Talk Talk lo regala sul serio: Myrrhman portata da Joan As A Policewoman nel suo peculiare spazio soul blues espressionista, ruvido e contrastato, sino ad entrare di diritto tra le pagine migliori della signorina Wasser.
Come qualunque album tributo, anche Spirit Of Talk Talk paga dell’eccessiva frammentarietà; della troppa carne al fuoco; dei troppi riempitivi. Ma soprattutto, salvo le rare eccezioni succitate, evidenzia una superficialità che male si adegua all’oggetto del tributo stesso, tradendone così una profonda incomprensione. Alla fine, ciò che più avvicina questo interminabile doppio al gruppo di Hollis e Friese-Greene, è l’artwork curato da James Marsh, grafico che curò anche tutte le splendide, storiche, copertine dei dischi del gruppo.
Un occasione mancata, quindi, che pone l’obbligo, a questo punto, di tornare a recuperare gli originali.