La scrittrice Jessica Dainese ha recentemente rilasciato un libro che ha donato il titolo anche alla compilation di cui scriviamo e che si basa su un’idea tanto semplice che nessuno ci aveva ancora pensato, ossia il raccontare quaranta e passa anni di storia del rock italiano, con l’unico requisito della presenza (almeno) di una musicista nelle band trattate.
Nata non tanto con fini meramente “descrittivi” o “narrativi” quanto con obiettivi di denuncia nei confronti di un mondo nel quale la discriminazione era (ed è) comunque presente nonostante si parli, spesso a caso, di “libertà e rock”, l’operazione, di base lodevole e ben più che necessaria, è stata quindi accompagnata dalla pubblicazione di questa raccolta di 24 brani nei quali si attraversano numerose declinazioni che le donne hanno conferito al significato di rock ‘n’ roll variamente inteso, dal finire degli anni ‘70 ai tempi nostri.
Il panorama si presenta pertanto per forza di cose non esaustivo, data la vastità del materiale di partenza, e parte con ripescaggi del passato che fa indubbiamente piacere rispolverare, fra cui la mai dimenticata Jo Squillo in età inquieta con le Kandeggina Gang o le Clito.
In esempi del genere il messaggio ribellistico brilla ancora di luce e spontaneità, sicuramente innovativo per i tempi e tutto sommato ancora attuale; i problemi casomai nascono, soprattutto 10-15 anni dopo, quando al messaggio non riesce ad accompagnarsi una forma espressiva all’altezza dello stesso.
Le connotazioni sessuali sono assai presenti, a voler significare riappropriazione di identità e di potere nei confronti del maschio, ma proprio per questo perdono tragicamente di valore e potenza quando sono ridotte a giochino quasi demenziale (si vedano le Fucking Barbies) o quando, dal punto di vista formale, sbracano nell’eccessivo scimmiottamento di generi suonati meglio altrove e in altri tempi (le derive metal di Mumble Rumble o Mab).
Sotto il profilo della confezione sonora, poi, spesso si viaggia nell’approssimazione più totale (nel campo delle registrazioni “grezze” si salvano le Motorama, in un minuto e mezzo che va dritto allo stomaco) o ci si rifugia in prodotti eccessivamente patinati (Squeezers, Kyuuri), ad ulteriore dimostrazione che a cavallo fra i ‘90 e i Duemila fare rock in italiano costituiva (per tutti, a prescindere dal genere sessuale) una scelta con tutti i rischi del caso.
Ma nel finale di disco (e 24 brani sono forse eccessivi) si apprezzano gioielli come la decostruzione beefheartiana delle Amavo (le migliori del lotto), l’austerità dei Sarah Schuster (l’arrangiamento senza dubbio più pensato), la furia genuina degli Agatha: si vede dunque che una “scena” al femminile esiste eccome e che è di qualità notevole.
In sintesi, a tratti ciò che emerge sembra davvero il fatto che alla indiscussa emarginazione, che le band femminili hanno subìto e subiscono, queste abbiano affiancato una ulteriore “autoghettizzazione” determinata dal voler adeguarsi a stilemi e cliché (pure di dubbio gusto) imposti da band maschili, invece di cercare strade autonome e magari più originali, rischiando, peraltro, di far passare il messaggio militante addirittura come anacronistico, quando non credibile.
Allorquando, invece, questo vincolo si spezza, emerge una sensibilità altra e differente, sia dal punto di vista melodico che di approccio allo strumento, con risultati assai convincenti, a dimostrazione del fatto che dei maschi si può fare di più e di meglio.
L’opinione di chi scrive è che le cosiddette “quote rosa” in campo musicale siano più che necessarie, date le straordinarie possibilità di completamento artistico fra i due generi. Rimane pur vero che, per esperienza personale, il pubblico femminile ai concerti è, statisticamente (almeno per la realtà d’appartenenza di chi scrive, quella fiorentina e dei dintorni), ancora troppo esiguo e ancora minore è il grado di disponibilità ad approcciare uno strumento, complice forse anche l’eccessivo fascino del ruolo di cantante.
Meno razzismo, per un verso, e meno “timori”, per un altro: la vera libertà in campo artistico, ancorché lontana e difficoltosa, si realizzi nell’abbattimento di barriere e nell’incontro produttivo. Per inciso, i Sabot, visti di recente, ne sono un esempio splendido, da prendere come autentica pietra angolare.