La copertina di Philharmonics ritrae una Agnes Obel dallo sguardo polare, priva dell’occhiata austera dei pescatori del Nord, più vicina per melanconia alla connazionale sirenetta di Copenhagen. L’ormai trentenne cantautrice danese ha debuttato con questo primo album nel 2010, ed ora lo ripropone in versione deluxe, con l’aggiunta di un secondo disco composto da ben undici “nuovi” brani, tra esibizioni live e versioni strumentali. Cominciamo col dire che le influenze musicali della Obel, da PJ Harvey a Roy Orbison, si perdono e si affievoliscono al contatto con la forte sensibilità geografica locale dalla quale la cantautrice attinge, sia in chiave letteraria, nella stesura dei testi, sia per quanto riguarda la vena nostalgica, stereotipo del luogo di provenienza. I due dischi non ci regalano certamente delle Agnes Obel differenti, piuttosto, è possibile percepire un senso di costrizione nel primo cd, dovuto al fatto che la vera forza di questa artista risieda proprio nelle performance dal vivo del secondo disco, così essenziali ma altrettanto penetranti. Si ascolti Close Watch di John Cale, resa con uno stormo di archi capaci di ridefinire l’intero sapore evocativo dei versi, e perché non pensare a Katie Cruel, un folk tradizionale, come all’out-take di un disco dei Fleet Foxes? Le note di Falling, Catching – la traccia iniziale del primo cd – danno il benvenuto all’ascoltatore mettendo le mani avanti: si tratta anche questo di un disco suonato, che si basa su note simmetriche e mai squilibrate di pianoforte, Riverside lo conferma, con quel cantato sospeso tra una Tori Amos meno vezzosa ed una pronuncia suadente nel suo essere così marcatamente danese. La terza traccia, Brother Sparrow, è lì per un motivo preciso: l’eco soffocato della base vuol essere chiaro sulla funzione degli strumenti musicali rispetto alla voce, i quali rappresentano una cornice ornativa. Just So sembra un pezzo della canadese Feist, così maledettamente indie, a tratti cantilenato, e per certi versi spudoratamente radiofonico con quel ritornello dalla metrica regolare. Se Beast fatica a prendere una strada precisa, Avenue è la ballata più convincente dell’album, dove le poche note di xilofono conferiscono un sapore quasi ottimistico rispetto al tono beffardo della canzone. Nella title-track, la cantautrice danese tira fuori qualche manierismo à la PJ Harvey e non dispiace: le note di piano tipicamente affondate della Obel ne placano la forza emulativa. Il ritmo staccato nell’intro di Wallflower e gli sprazzi di violoncello anticipano la forma usuale della breve Over The Hill, che nel suo essere così diretta si assicura diversi ascolti in più rispetto al resto dell’album. On Powdered Ground ha un senso di novità impresso nell’inciso che si perde però nel ritornello ossessivo, ma più facilmente assimilabile. È un disco non semplice Philharmonics, il lavoro di veri musicisti e di una vera cantante che – purtroppo – fanno fatica a trovare spazio nell’attuale mare di sintetizzatori che ricoprono, in maniera inaccettabile, anche diverse produzioni folk o presunte tali. Un disco autunnale, che emerge come vapore da distese di acqua gelata, tra i paesaggi primitivi della Danimarca e gli abissi più inesplorati dell’animo umano: il disco da tenere in valigia in attesa della fine dell’estate.