Parlando invece delle tue performance. Avendo tu spaziato tra diversissime forme d’arte ed essendoti esibita in luoghi i più disparati possibile, tra i luoghi di culto alle strade, passando per i freakshow e così via, riesci a identificare un pubblico che sia più vicino, appropriato se vuoi, al tuo modo di stare sulla scena?
Io da sempre penso che il pubblico più adatto sia quello intelligente. Mi piace suonare per le persone intelligenti. Non mi piace altrettanto esibirmi per le persone stupide. Al di là di questa distinzione non c’è un contesto specifico che prediliga. Mi ritengo molto fortunata perché il mio pubblico è piuttosto disseminato, vario. Non sono solo hipster o appartenenti alla comunità queer come si può pensare. Ripeto, è abbastanza variegato. Credo sia un po’ la speranza di ogni artista, quella di non avere un pubblico troppo ripartito, settoriale. Mi piace molto questa varietà.
Com’è stato invece il passaggio dalla dimensione estemporanea degli spettacoli alla registrazione? Incidere un disco ha assunto per te un significato particolare?
In passato effettivamente mi interessava soltanto suonare per la gente e per niente registrare. Ho iniziato a incidere dischi praticamente a metà dei miei quarant’anni, una decade fa. La registrazione era allora qualcosa per cui non mi ero creata alcuna aspettativa, tanto per cominciare. Non mi aspettavo che fosse divertente o trascendentale per me. Poi quando ho iniziato è cambiata proprio la prospettiva. Definisce quello che crei, lo cristallizza. Finché non la registri ogni cosa che ti gira per la testa rimane fluida, puoi cambiarla in ogni momento, specie le parole; puoi sempre aggiungere qualcosa di nuovo, un’intro strumentale di quindici minuti magari. Quando è registrata è fatta e devi accettare che sia così. È come quel quadro che vedi, non è che ora uno passa e ci aggiunge un altro personaggio che cammina lungo il fiume. All’inizio questa prospettiva non mi entusiasmava, preferivo che le cose potessero vivere il cambiamento e mi sentivo come ingabbiata in qualche modo. Ma c’è qualcosa di intenso al contempo, il fatto che si possa dar vita a una creatura finita, senza ripensamenti, e l’intensità del prodotto finito è qualcosa con cui ho imparato a scendere a patti. E così la registrazione mi ha aiutata molto a trovare quel senso della finitezza, ad accettare che le cose non possono essere cambiate in continuazione e che devono avere un inizio, una metà e una fine, parole che allora pensavo fossero nefaste. Odiavo molto definire le cose. Quando registri invece è tutto un definire. Per esempio con questo nuovo disco: molti di quei pezzi a cui ho dato dei titoli allegri, come Cowboys With Cowboy Hat Hair e Coughing Up Cat Hair, sono usciti fuori da una prospettiva senza inizi e senza fini, dalla musica classica, da inno, che è partorita dal pianoforte meraviglioso che ho in casa, sono fuoriuscite letteralmente dallo strumento. Non potrei scrivere pezzi del genere su un piano come questo [indica il piano nella hall]: se riesci a immaginarlo pensa che lo Steinway D è quasi due volte grande. La maestosità dello strumento e il suono portano a improvvisare senza freno e a creare pezzi che faticano a entrare in quella logica di inizio, mezzo, fine, di finitezza in genere, e quindi per inciderli ti ritrovi a stabilirne i confini, a dire “potrebbe iniziare qui”, “potrebbe finire lì” e così via. Abbiamo registrato a pezzi, anzi, in sessioni, grandi sessioni, tre o quattro in totale e poi editato tutto in fase di missaggio. Per questo ci sono brani che iniziano in modo maestoso e si trasformano del tutto: tre o quattro pezzi dell’album hanno questa dinamica. Il pezzo On The Day I Died la rappresenta in pieno. A volte mi ritrovavo a fare dei pezzi strumentali di quindici minuti ininterrotti, mi accorgevo che mi aspettavano, specie un chitarrista bravissimo che ci ha raggiunti, e dicevo “Ok adesso attacco!”. È un’idea così ridicola, un’intro di quindici minuti per un pezzo di due [Ride].
Prima parlavi di Andrew W.K. Hai avuto modo di collaborare davvero con molti artisti diversi fra loro. Cosa credi debba scattare perché una collaborazione funzioni al meglio? Credi sia una questione di comune visione sulle cose o più una questione di versatilità?
Innanzitutto credo che non avrei potuto collaborare in questo modo quando ero più giovane. Ero troppo attaccata a quello che stavo facendo. A questo punto della mia vita incontro le persone, mi capita di ammirare i loro doni di natura, i loro talenti e le loro abilità. Ciò è successo con quel bel gruppo di persone con cui ho avuto la benedizione di lavorare. E adesso apprezzo molto che qualcuno prenda del mio e ne faccia quello che vuole, personalizzandolo e dando un apporto personale, in totale libertà. A volte portano il mio materiale in luoghi che io non avrei esplorato e questo giova alla mia musica, la rende più forte, più viva. Non vedo l’ora che si occupino della mia musica e che la rendano viva al di là delle mie intenzioni, di come l’avevo concepita. Sapevo per esempio che Andrew aveva una grandissima affinità col mio lavoro. Non è un caso che questo magnifico pianoforte me l’abbia dato lui, perché a lui piacciono le cose gigantesche, è un maestro della grandezza. È la sua natura. Al contempo sa essere gentile e premuroso. È probabilmente il musicista più assurdo che abbia mai conosciuto, può fare qualsiasi cosa, davvero, oltre ad essere un eccellente pianista e bassista. Lui sì che è davvero versatile. Sapevo che poteva imprimere un’idea di grandezza e di esagerazione, se vuoi, e ho voluto fermamente che lo facesse. Spesso quando collabori con qualcuno l’altro tende a essere intimidito, non vuole imporsi sul tuo lavoro. Io invece voglio che si impongano, che lascino la loro traccia. Lui si sente eccome! Andew è dappertutto in questo album: la grandezza che si percepisce è tutta sua. Ed è anche molto bravo a divertirsi! Ce la siamo davvero spassata.