Eppure quel giorno di fine agosto in quell’angusto ma sciccoso attico in pieno centro cittadino, qualcosa era accaduto! Turbamento infantile? Infatuazione spirituale? Non so ma, di certo, la redenta convinzione che quella ragazza, di bianco vestita, con grossi occhiali neri ed il fare sbarazzino di chi si gusta gli ultimi, restanti, minuti delle trascorse vacanze, prima che un aereo in partenza la riporti alla quotidianità, fosse riuscita a plasmare lo spazio circostante donandole altro spessore. Giammai l’etere inservibile e sconveniente del caldo afoso ma quello sognante e rarefatto delle cose fatte per bene. Un brano, un unico brano, ascoltato in religioso silenzio. Il resto non fu difficile immaginarlo ma qualcosa aveva iniziato il suo corso!
Sebbene avessi carpito subito la reale portata di quel lavoro, resto comunque annichilito, ora, dinanzi alla maturità con cui Mrs Beatrice Antolini ci offre questo BioY, ancora una volta licenziato dalla Urtovox e pregno di così tanta roba che una medina mediorientale, al cospetto, potrebbe sembrare uno sgabuzzino. Come per i lavori precedenti, anche qui la farcitura strutturale che umetta tutto il disco si burla della forma canzone rincorrendo lo stereotipo freak/avant. Lo stesso che, in questi pochi anni, ha contribuito a fare in modo che l’hype di Beatrice non raggiungesse mai il “plateau of productivity”. D’altronde, se ne era già accorta gente del calibro dei Jennifer Gentle, Bugo, A Toys Orchestra o i più blasonati Baustelle e Velvet che con lei hanno, più o meno, impiastricciato ultimamente, ma soprattutto se ne accorgeranno quei pochi, sparuti delatori che sovente la confinavano in una troppo stretta, oltreché miope, visione emulatrice del punk cabaret marcato Dresden Dolls/Amanda Palmer. Un passo ancora avanti, dunque. Uno scatto, forse sarebbe più giusto dire, verso la legittimazione come artista a tutto tondo che in poco tempo è riuscita a ritagliarsi la sua bella fetta di estimatori con la consapevolezza, amplificata inoltre dall’essere unica proprietaria del marchio, di non aver sbagliato un colpo.
Arnese imprescindibile, infatti, con cui attrezzarsi per l’approccio di BioY, diventa il recupero intelligente e sagace dei preziosi anni ’80, secondo la chiave che la stessa artista maceratese ci fornisce: non sterile associazionismo ma retaggio colto e costruttivo.
Dimostrazione evidente ne è la “galeotta” Piece of Moon, apripista di questo gran disco e rafting veloce sulle rapide Talking Heads mentre un inciso che respira l’aria sognante di Elizabeth Frazer non ti lascia scampo. Con We’re gonna live (impreziosita dal sax sghembo di Andrea “Andy” Fumagalli dei Bluvertigo), la cosa si fa più danzereccia e credo anche più radiofonica; siamo dalle parti della dance-funk di Lizzy Mercier Descloux, ma decisamente più ragionata. Poi ritorna il dreampop decadente dei Cocteau Twins con Planet, piano song viscerale ed ordinata, formula in cui la Antolini si ritrova a meraviglia, basti ascoltare il monologo sopra una cornice di ottoni di Paranormal, che la coglie, foriera di cattivi presagi, con piglio da diva. Gli eighties “altri” (ma anche i seventies) ritornano passionali con Mutantsonic, funky macroscopico in cui è possibile scorgere i manierismi Tom Tom Club declinati à la maniera nera, trasformando Bologna (città d’adozione di Beatrice) nel South Bronx delle ESG. Eastern sun e BioY hanno invece le vaghe fattezze psych-avant che potrebbe avere Billy Idol tradotto dai Parentethical Girls. Venetian Hautboy, Abletable e Night SHD sono, infine, la perfetta ecografia di un disco che ha in se tutti gli ingredienti per centrare il bersaglio. Le Bangles che flirtano con i Gang of Four e Devo mentre i Psychedelic Furs animano la festa dei Kraftwerk. Non un riempitivo, nulla di pleonastico, pletorico, ridondante. Magniloquenza estatica nelle forme e nella sostanza. Il caldo è opprimente, si sa. La sua morsa non ti lascia scampo! Eppure qualcosa aveva già iniziato il suo corso..chissà dove arriverà?