Con un antecedente come For Emma, Forever Ago (2007) il nuovo disco di Justin Vernon non poteva che suscitare grandi aspettative. Uno dei punti di forza del disco era il dischiudersi di una dimensione personale, una narrativa sottile che partiva da un isolamento (il tanto ricordato capanno da caccia del Wisconsin in cui fu registrato durante l’inverno) e approdava a un songwriting folk di rara intensità, che da disarmante sapeva farsi ristorativo. Fulmineo fu l’inserimento nel canone dei dischi del nuovo millennio, fino al saccheggio da parte di serie televisive e alla recente cover di Skinny Love per mano della quindicenne Birdy. A suo modo anche questo album, che arriva tra le altre cose dopo un EP (Blood Bank), le esperienze Volcano Choir, Gayngs e persino la collaborazione all’ultimo disco di Kayne West, nata dal campionamento di Woods, parte da un vuoto: “I forgot how to write songs”, ha dichiarato a proposito della genesi dei nuovi pezzi. Un vuoto colmato dal sedimento dell’improvvisazione, da una composizione più ricca ed impressionistica, da una varietà di soluzioni che depistano quei bozzetti raccolti verso aperture avanguardistiche che è meno agevole etichettare, tese come sono a complicare i loro contorni e a giocare le loro carte su atmosfere rarefatte e incontenibili. Registrato sempre in Wisconsin agli April Base Studios, in una ex-clinica veterinaria vicina a luoghi dell’infanzia adattata a studio con l’aiuto del fratello, il disco ha beneficiato di un concepimento più collettivo rispetto al passato. Oltre ai membri della sua band live (Sean Carey, Matt McCaughan e Mike Noyce) spiccano i nomi di Colin Stetson, già al sassofono per Tom Waits e Arcade Fire, C.J. Camerieri (Sufjan Stevens, Rufus Wainwright), Greg Leisz alla pedal steel (Lucinda Williams, Bill Frisell) e Rob Moose per gli archi (The National, Antony). Una squadra niente male. A percorrere sottigliezze e fluttuare con la sua timbrica inconfondibile è sempre il falsetto di Vernon, collante superlativo per le varie atmosfere, capace di elevarsi fino a superstrati di intangibile consistenza e di restituire al contempo un volto più terreno, persino sofferto ad alcuni degli episodi più dinamici. Perth apre questo itinerario lungo i confini di luoghi reali e non con la flebile mutevolezza di cori e chitarre e con un incedere militaresco della batteria che converge in uno scoppio orchestrale di drammatica intensità. Pezzi come Michicant o la ballata Holocene echeggiano alcune suggestioni del primo disco e recuperano una matrice folk più essenziale, qua e là resa più evocativa da soffuse orchestrazioni o scheggiata da pulsazioni elettroniche. “And at once I knew I was not magnificent”, canta Vernon nella seconda. Un senso di magnificenza domina invece l’intero album, un ampio respiro che fa da contrappunto all’impenetrabilità dei testi, in cui apparenti flussi di coscienza sembrano essere interrotti da soluzioni indecifrabili, che portano l’ascoltatore a trasvolare di necessità nella dimensione onirica della musica. I pezzi che segnano il cambiamento, veri crocicchi di stili e riferimenti, approcciano l’evanescenza dell’album con un’estrema varietà di soluzioni. Il singolo Calgary parte da sospensioni synth 80s per rifrangersi verso il terzo minuto su sponde indie-rock; Minnesota, WI è un curioso ibrido, agevolato dalla malleabilità della voce e trascinato da un banjo che si fa strada tra sassofoni e accenni elettronici. Hinnon, TX attinge allo stesso bacino ed enfatizza il saliscendi vocale alternando baritono/falsetto su una trama di piano e riverberi che sembra portare lentamente i Bee Gees su un fondo marino. La vera sorpresa straniante è però la chiusura di Beth/Rest, uno studiatissimo riuso dell’adult pop vintage di Phil Collins e Bruce Hornsby che, con quel piano Korg, il sassofono e i sentimentali assoli di chitarra, potenzialmente potrebbe far inorridire e invece riesce ad ammaliare ridefinendo in cinque minuti il confine tra cool e intensità pop. Una sfida alla sua straordinaria capacità di raccontarsi, Bon Iver, Bon Iver è un disco ambizioso, che mette da parte i contorni definiti e che ricerca la bellezza nell’avvicendarsi di sensazioni mutevoli.