Prendete la mente occulta di una delle band più acclamate della più recente scena britannica, un’eclettica soprano e polistrumentista, fateli chiacchierare un po’ al telefono e prenotate la basilica di S. Pietro (sic!) per il debutto dal vivo. Più o meno, i Cat’s Eyes sono tutto questo, un progetto pronto per essere sbattuto sulla carta a colpi di glam prima ancora di ascoltarne mezza nota; ovvio che poi le aspettative rischiano cocenti delusioni, come non di rado capita allorquando si calca la mano oltre il necessario, fino a rischiare di ritorcersi contro il gruppo stesso. Nel caso dei nostri, ossia Faris Badwan degli Horrors e la cantante Rachel Zeffira, le cose vanno, per fortuna, in modo diverso, in primo luogo per la chiarezza e il senso della misura dell’intero progetto. Partendo da alcune melodie cantate (ma per lo più sussurrate) dalla Zeffira, Badwan vi ha costruito sopra interi brani che racchiudono, ciascuno in sé, un estratto dell’estetica sonora degli anni ’60. Fin qui, l’operazione, compiuta da altri mille altre volte sino allo sfinimento, sembrerebbe non sorprendere nessuno, senonché viene da pensare che i Cat’s Eyes abbiano compiuto la stessa operazione che gli MGMT hanno fatto con Congratulations riguardo al periodo tardo vintage e pre-glam (o, per citare un esempio nostrano, i Calibro 35): superare e trascendere il genere e le proprie ispirazioni. Obiettivo centrato pienamente, giacché il profluvio di citazioni che l’ascoltatore sembra aver percepito chissà quante altre volte non si ferma in superficie ma tocca corde profonde. Infatti, i pezzi sono strutturati e arrangiati con cura estrema – ottimo l’uso di legni particolari quali il corno inglese e di ottoni, in primo luogo del corno – senza, per questo, risultare freddi, soprattutto grazie alla scelta delle melodie, alcune delle quali davvero cristalline e indovinate. Allo stesso modo, risulta perfetta la scelta di aver lasciato le registrazioni vocali della Zeffira (splendida per come maschera la sua impostazione lirica) al telefono, come ad evocare un senso di lontananza e di nostalgia, non solo per un’ipotetica persona amata ma anche e soprattutto per quella musica che i due vogliono evocare e che guardano sempre e comunque con estremo rispetto. In sintesi, ce n’è veramente per tutti i gusti: si passa dalle girlbands con tanto di arrangiamenti di marca Phil Spector (l’iniziale title track e Over You), alla rievocazione di stilemi morriconiani (la spagnoleggiante e bellissima The Bandit, la scura Sooner or Later, che gioca ad imitare The Untouchables e Indagine su un cittadino, così come The Lull fa con le atmosfere distese di The Mission), alle colonne sonore degli spy-movies (Face in the Crowd), fino a vestirsi dei panni della sempiterna coppia Gainsbourg–Birkin, senza esserne una scialba replica (Not a Friend – e ci mancherebbe). Naturale pensare, a questo punto, che un frullatore di generi come Quentin Tarantino con questo materiale ci vada a nozze e sicuramente al cinema Faris Badwan è andato parecchio e, soprattutto, ha visto le cose giuste. L’immaginario cinematografico sembra, infatti, costituire oramai irrinunciabile fonte di ispirazioni per i gruppi pop, quasi che si trattasse di nuova musica a programma, creata a processo invertito. E ben venga, soprattutto se, come in questo caso, il risultato è evocativo e pervaso da un fascino seducente al quale è indubbiamente difficile resistere.