Nel 2000 avevo quindici anni ed entravo nella mia adolescenza: sia dal punto di vista anagrafico che da quello musicale. Questo secondo passaggio consisteva nell’abbandono dei grandi miti musicali legati alla mia infanzia e alle (allora potenti) Major italiane. MTV, da pochi anni sbarcata in Italia, aiutò questo mio percorso culturale, non senza deviazioni ed ostacoli ovviamente. Fra i gruppi che più di tutti mi colpirono allora ci furono i Dandy Warhols, che spopolavano con il tormentone ‘Bohemian Like You’ (solo successivamente avrei scoperto essere tratta dal loro terzo album Thirteen Tales From Urban Bohemia). Per molto tempo, fin quasi all’altro-ieri quando ho ricevuto il nuovo disco per la recensione, ho concepito il quartetto di Portland come legato a quell’unico successo pop-rock. Ascoltando This Machine mi si è aperto un mondo. Scopro quindi che il gruppo ha alle spalle un’invidiabile carriera quasi ventennale (esordirono nel ’95 con Dandy’s Rule Ok?) durante la quale hanno sfornato ben nove album. Nello stato dell’Oregon a metà degli anni ’90 esisteva ben poco al di fuori del Grunge, a livello musicale e non. E proprio da lì prendono le mosse questi quattro ragazzotti (il cui cantante assomiglia dannatamente a Trent Lane degli Spirale Mistica nonché fratello di Jane Lane migliore amica di Daria, sempre per rimanere in tema MTV ad inizio III millennio) mischiando, però, a questo inevitabile sostrato musicale i Velvet Underground, i Rolling Stones, Simon & Garfunkel e i Beach Boys. Rendendo l’espressione pubblica del più profondo disagio umano tipico dei gruppi di Seattle una mera estetica nelle mani del divertimento e dello Show Business. L’archetipo del rock n roll da che mondo è mondo. Con il passare degli anni la tecnica e la perizia sono migliorate, i ritmi sono leggermente rallentati, la maturità ha preso il posto dell’impulsività, ma nella sostanza poco è cambiato rispetto alle origini di Courtney Taylor & Co. Si parte con il Blues-Rock ultra distorto di ‘Sad Vacation’, si prosegue con il ritornello catchy avvolto tra chitarre brit rock anni ’90 di ‘The Autumn Carnival’ e il garage in perfetto stile Strokes arricchito da un’elttronica tanto semplice quanto sfiziosa in ‘Enjoy Yourself’. ‘16 Tones’, invece, potrebbe essere stata scritta dai Morphine in un eccesso di euforia mentre ‘Well They’re Gone’ fa del trip-hop una ballata elettrificata in perfetto american-style. Un grande calderone di stili ben miscelati tra loro che si risolve, in sostanza, in un divertissement hypster, ma realizzato maledettamente bene. Cazzonaggine coi controfiocchi insomma. Averne di album senza troppe pretese che suonano in questo modo.