Difficile parlare dei dEUS per chi ha vissuto in prima persona la musica degli anni 90: è fuor di dubbio, infatti, come il gruppo belga capitanato da Tom Barman sia stato una delle punte di diamante dell’indie-rock di quel decennio. A parer di chi scrive, addirittura la terza punta di un ideale triangolo delle meraviglie con alle altre estremità Motorpsycho e Pavement (ebbene sì, ho estromesso il trio di Seattle: de gustibus). La prima parte della carriera dei nostri è da manuale: un trittico di dischi uno più bello dell’altro, a cominciare dalle atmosfere art rock di Worst Case Scenario, passando per i bozzetti storti di In A Bar, Under The Sea per poi concludere con la cosa più matura e completa, quell’Ideal Crash giustamente considerato come l’opera più rappresentativa della band. Dopo un silenzio durato alcuni anni (e alcune importanti defezioni, una su tutte quella di S.K. Carlens) si apre la seconda parte della carriera con Pocket Revolution: il processo compositivo è ora quasi tutto nelle mani di Barman, il quale predilige una chiave di lettura maggiormente orientata verso un songwriting più “dritto” e classicamente rock. Con onestà bisogna dire che questo disco (insieme al successivo Vantage Point) ci resituiscono una versione dei dEUS con tanto mestiere ma molto meno estro creativo. Veniamo così all’ultima fatica, Keep You Close: leggendo le note promozionali si apprende di un ritorno alle sonorità di Ideal Crash. Quanto c’è di vero in ciò? In realtà poco, anche se il disco non è affatto da buttare. La linea è sempre quella tracciata dai due lavori precedenti, quindi niente sperimentalismi e abbozzi arty innestati in melodie malinconiche, ma molto mestiere (repetitia juvant), molto artigianato rock, molte atmosfere soffuse e noir. La sensazione è quella di un progressivo imborghesimento del suono, come se i nostri ambissero ad una qualche hall of fame. Ma sia detto chiaramente, ce ne fossero di borghesi così: la title track è una delle cose più belle scritte dal gruppo da parecchi anni a questa parte, con una melodia costruita sapientemente e accompagnata da un arrangiamento orchestrale azzeccatissimo. In generale è tutta la prima parte dell’album quella che ci convince di più, sia quando le chitarre esplodono nel refrain (molto anni 90…) di Dark Sets In, sia quando ci si lascia andare ad un ritornello zuccheroso col piano che batte un motivetto facile facile (Ghosts: ed occhio alla coda strumentale…). Twice We Survive è forse la cosa che si avvicina di più alla vecchia produzione, con quel sentore di disperazione romantica da fine del mondo. La seconda parte del disco mostra un pochino la corda (Costant Now è uno scivolone da dimenticare in fretta) per poi risolevvarsi con Easy, efficace synth-ballad a tinte scure, con dei sublimi archi a chiudere il tutto. Dunque: non un ritorno all’incidente ideale, ma sicuramente il lavoro più riuscito tra gli ultimi prodotti. Per alcuni istanti del disco la magia sembra ripetersi: riteniamo che ai dEUS, nel 2011, non si possa (e non si voglia) chieder di più.