lunedì, Dicembre 23, 2024

Elbow – Build A Rocket Boys! (Fiction, 2011)

Gli Elbow non sono i Coldplay (fortunatamente), non hanno mai aspirato alla loro immediatezza sonora e lirica, non sono nemmeno gli emuli di altri gruppi che solitamente vengono associati al loro modo di fare musica (Turin Brakes, Doves ed i passionali Embrace), gli Elbow fanno musica misurando le rifiniture dei loro lavori come solo un bravo artigiano sa fare. Dopo il successo strameritato di pubblico e critica del precedente album, The Seldom Seen Kid, il gruppo di Guy Garvey torna con quello che – a nostro avviso – è il loro capolavoro assoluto, l’opera artigianale, appunto, dalle rifiniture ben misurate. Build A Rocket Boys! è un romanzo fanciullesco in musica, eccelso modello di tradizione letteraria inglese romantica, fotografia (analogica) in versi del tempo che fu, nostalgia British che il presente non potrà mai compensare e che per questo, va affrancata condividendola con l’ascoltatore smanioso. Il racconto si apre con l’epica The Birds, otto minuti da ascoltare in silenzio ascetico, mentre l’immagine di una lontana città avvolta dalla nebbia si fa più chiara: la voce di Guy Garvey dipinge note offuscate come le pennellate del famoso dipinto di Caspar David Friedrich, “Il viandante sul mare di nebbia”, un’esplosione di euforia vocale placata da una latente malinconia. Lippy Kids, il secondo capitolo, è un piano i cui tasti emergono da quella nebbia per avvolgere la nostra esistenza con la propria delicatezza e la peculiare educazione delle liriche. Sei minuti di estasi e suggestioni dal passato. Improvvisamente arriva lo snapping di With Love, episodio singolare dove la voce prestante di Guy Garvey incontra lo spettacolare The Hallé Youth Choir (presente anche in altri pezzi), dando vita ad una sorta di apoteosi gospel dell’amore. Si fa largo il primo singolo Neat Little Rows, scelta – a nostro avviso – incomprensibile, dato il potenziale delle altre tracce. Parte come un pezzo di Thom Yorke (senza il suo fare spocchioso) ed esplode in un chorus quasi etnico, penetrante, concludendo il suo viaggio negli strazianti echi finali. A placare questa folle esplosione arriva Jesus Is A Rochdale Girl il cui testo formalmente criptico è stato ispirato da una misteriosa ragazza di Rochdale (città della contea della Grande Manchester). Come già Garvey ha rivelato durante un’intervista al Guardian, la canzone è un flashback dei suoi “twenties”, periodo in cui preferiva la scrittura alle esibizioni dal vivo: uno dei tanti pezzi evocativi dell’album, sentimentalmente parlando. The Night Will Always Win è sulla falsariga di artisti come Eels, scorre veloce con le sue imperfezioni lasciando insaziabile l’ascoltatore, che necessita di un altro ascolto. Irrompe, prepotentemente, High Ideals che si svolge su di un tappeto semi-elettronico, prodotto della medesima e ripetuta nota. In The River la voce sicura di Guy Garvey ci accompagna in un viaggio fantastico attraverso il tragitto di un fiume, fatto di percorsi scoscesi, rapide salite, metafore dell’irriflessiva età pre-adulta. Open Arms è l’ode alla comprensione mentre Dear Friends – chiusura perfetta – è un inno all’amicizia, l’istantanea degli Elbow attraverso gli occhi di Guy Garvey in una visione ironica e profonda allo stesso tempo: “cari amici, siete angeli e ubriaconi, siete magi”. Questi non sono gli Elbow della “bluesy” Grounds For Divorce, forse sono più vicini agli Elbow di Forget Myself, meno britpop, più sul genere “Peter Gabriel incontra gli Elbow tormentati di Switching Off”. Livelli eccelsi di alternative rock (per intenderci nessun lamento aggraziato simil-Coldplay) fanno di questa band una piacevole eccezione nel soporifero panorama musicale alternativo mondiale.

Sebastiano Piras
Sebastiano Piras
Sebastiano nasce in Germania e sin da piccolo mostra uno sfrenato interesse nei confronti della musica, dal pop soul dei Commodores alla singolarità del Duca Bianco.

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