Emily Loizeau dopo tre anni dal debutto ufficiale con L’autre bout de monde, pubblicato nel 2007, torna sotto il segno di un metissage culturale e sonoro ancora più definito. La leggerezza di una costruzione pop e liquida di impostazione pianistica non viene meno anche in questa raccolta di brani dove lo strumento prediletto da Emily viene apparentemente collocato in una posizione di sfondo.
Si tratta di un’intima connessione che cerca comunque quelle assonanze attraverso timbrica e orchestrazione più ricche, possibilità che si esprimono attraverso un’impostazione fondamentalmente minimale. La scelta è molto precisa e dovrebbe dissipare tutti i dubbi relativi ad un supposto esotismo di maniera della songwriter Franco-inglese, attenta casomai ad equilibrare due mondi esplorati durante un doloroso rito di passaggio, senza che l’uno prevalga realmente sull’altro.
La gamma è ricchissima e mette insieme canzone francofona, tradizione americana, influenze africane, gospel bianco, tentazioni manouche, pop anglosassone, Joni Mitchell, in una griglia solidissima e con un controllo degli elementi sorprendente, tanto che il lavoro rigoroso e insospettabile di Elodie Maillot si configura come uno sfondo di etnografia sonora alla ricerca di impronte, di tutte quelle tracce lasciate da un sistema cerimoniale o da una stratificazione di comunità che la Loizeau non utilizza semplicemente come abbellimento o semplice raccordo tra un brano e l’altro.
La sua è la rappresentazione di un’appartenenza complessa, materiale bianco dalla memoria selvaggia. Davvero notevole.