Deve essere difficile, per Keren Ann – di mamma giavanese-olandese e padre russo-israeliano – trovare una dimensione musicale netta che possa rappresentare in maniera esaustiva questo suo mo(n)do variegato e multiforme. Lo avevamo già intuito da Lay Your Head Down, ballata non convenzionale, dove il piglio elegiaco dell’armonica a bocca faceva a botte con i ritmi cardiaci delle percussioni, simili a quelli di Heroin dei Velvet Underground. In effetti, non abbiamo ancora capito chi sia realmente Keren Ann, né da dove venga (e soprattutto dove voglia andare). La bella chanteuse divide il suo tempo tra Parigi e Tel Aviv, suonando la chitarra con atteggiamenti più vicini alla Nico della già citata “opera d’arte musicale” targata Lou Reed, con qualche ammiccamento, però, all’attuale scena musicale mainstream. L’eterogeneità di un album, e la logica predisposizione di un artista a mettersi in gioco, non possono che essere considerate delle ottime caratteristiche, certo, ma il fatto che in alcuni pezzi Keren Ann suoni come una convulsa k.d. lang (si ascolti Run With You) per poi lasciare il passo alla Madonna di Ray Of Light (il primo singolo My Name Is Trouble), può confondere l’ascoltatore. Il concept del disco, 101, invece, è apprezzabile. La title-track racconta, attraverso l’enumerazione, il mondo di Keren Ann, a partire dall’orgoglio nazionale (“12 tribes of Israel”), che mai rasenta lo sciovinismo, seppur a tratti celebrativo (“63 years since Independence” – d’Israele). A livello musicale, oltre gli artisti già citati, siamo sulla falsariga di grandi nomi quali Sia e la celebre Mireille Mathieu (la Ann è anch’essa di lingua francese), insomma, come dicevamo, le influenze sono tante e diverse e Keren Ann non sembra farne un problema: “my name is trouble, my first name’s a mess”, canta eterea nel primo singolo, quasi a voler rimarcare questo senso di disordine che paradossalmente regola la sua vita. Nel disco ci sono comunque degli ottimi spunti, oltre alla traccia di apertura ed al singolo promozionale, colpiscono la scorrevolezza funk di Sugar Mama e la sanguinaria Blood On My Hands sospesa tra le note timide di una chitarra ed il ritmo serrato del suo incedere. Il resto si divide fra ballate gentili (All The Beautiful Girls) e pezzi di un fascino disarmante, come la profonda e commovente Strange Weather, canzone che rappresenta la migliore Keren Ann, un esempio di come l’educazione degli elementi elettronici possano avere una loro funzione anche in un contesto prevalentemente acustico (senza necessariamente strafare). Fatte queste premesse, ci auguriamo che la cantante “cittadina del mondo” voglia proseguire verso questa strada, fondendo completamente le sue cittadinanze musicali in un unico genere che possa rappresentarla, senza dover dare di lei l’immagine di un apolide in cerca di un contesto stabile.