Tipi i tosti i Kobayashi. Quelli che non ti aspetti e tirano fuori un concept album di quattro tracce da 10 minuti l’ una. Nel 2010. Disco difficile, complicato, cupo forse. Anche perché in effetti, dopo una definitiva maturazione il frutto è da cogliersi, altrimenti rischia di appassire e ammuffirsi.
La logica ci indica quindi che il momento giusto nel quale apprezzare qualcuno e qualcosa in campo musicale sia quello in cui l’ originalità propria di ogni artista sposa la conoscenza, la ricerca, la grazia compositiva. Alcuni di loro però, raggiungono la piena maturazione nell’ indifferenza di molti (ed è il caso del loro omonimo album del 2008, che, tecnicamente parlando è un album perfetto) e allora usano manieristicamente la loro maturità, giocando a scoprire nuovi suoni, nuove forme compositive, nuova complessità, nuova energia velandoli di malinconia, raggiungendo una piccola vetta di sintesi estrema che ci ricorda che i Kobayashi, sono ancora loro. Nel male e nel bene, il cerchio si apre e si chiude senza lasciare nulla al caso e al superfluo, né fuori, né dentro. A tutto questo manca qualcosa? No signori, qui si elogia la presenza dell’ assenza. Troppo autoreferenziale? Forse, ma estremamente affascinante.