Il secondo lavoro solista della chanteur degli Stereolab è esattamente ciò che ci si attende; non un rigo è fuori posto; nulla al suo interno può risultare inatteso o spiazzante. Quel suono così peculiare che ha contribuito a forgiare in anni ed anni d’attività, quella voce con cui ha condotto la monocromaticità allo stato dell’arte, sono ancora tutti qui a testimonianza di un’integrità artistica inscalfibile. Inutile dire che bastano due note per ritornare inevitabilmente agli stessi Stereolab, anche senza Tim Gane, giacchè dei suoi trascorsi paralleli (ad esempio con Mice Parade) qui non v’è traccia alcuna, ed è quindi un altalena cockatil virata indie d’atmosfere retronueve, d’ineffabili Morricone (in Find Me the Pulse of the Universe ricompare persino lo “Sean Sean” di Giù La Testa), Ortolani e Barry su vaghi singulti kraut o adagiati su divanetti calypso e samba; di svenevolezze Francois Hardy (nei francesismi di Moi Sans Zach); di soft pop da Sandy Shaw a Studio Uno (Beetween Earth and Heaven); di vocalismi easy listening in riverbero, da Edda Dell’Orso tra i solchi di qualche sperduto 45 giri library (praticamente ovunque).
I Tortoise sono lì, sui twang ed i vibrafoni di Silent Spot, con John McEntire dietro le pelli; i Sea & Cake subito a seguire nella politica da salotto di Auscultation To The Nation, con Sam Prekop all’elettronica in un raro momento distorto, e gli Air ancora dopo in There is A Price to Pay for Freedom (and it Isnt Security): omaggi, molto chic verrebbe da dire, a chi alla lady ha dovuto più di qualcosa.
Qualche sprazzo d’elettronica di scuola chicagoana, altezza 2001, nelle suggestioni cosmiche di Merci De M’avoir Donné La Vie ed il funk algido di Fragment Pour Le Future De L’homme deviano di poco il percorso, mentre Next Time You See Me, con la sua vaghezza ed i suoi lontanissimi accenni Wire di rimando, plana leggera su accordi pacatamente indie-rock e cori sixties.
Snob come non mai, tanto più che la sua musica, un tempo attualità avant-pop, è oggi una raffinatezza per pochi intimi intenditori trenta/quarantenni. Inamovibile dal suo lounge bar alternativo, Laetitia Sadier si riconferma autrice di stile e classe indiscutibili a cui sarebbe superfluo chiedere qualcosa di diverso da una musica che si configura come una stratificazione di passati sonori che, piuttosto che impolverarsi, appaiono sempre più lucidi e cangianti; seppure affidati a formule di reviviscenza così tanto storicizzate da apparire sempre uguali a se stesse.