Apolidi ma di stanza a Bruxelles, attivi dal 2003, praticamente sconosciuti dalle nostre parti ma piuttosto popolari nel nord Europa. Centrale nell’economia del gruppo è la voce e la presenza della diafana Tanja Frinta, attorno alla quale si sviluppa un suono che, in quasi dieci anni d’attività, è mutato da un dream pop acustico, dalle screziature jazzy, elegante ed un po’ incolore, in qualche modo rimembrante la vecchia scena belga dei ’90 e discendente più o meno diretto dei Mazzy Star, all’attuale che incorpora al suo interno le influenze più disparate, fino a comporre un quadro multiforme ma anche di difficile interpretazione.
Ad emergere è uno spiccato accento anni 80, in cui tutto appare eccessivo e sovraesposto, dal suono carico e pesante, che farebbe pensare quasi ad un’altra band. Il restyling non sembra affatto giovare al gruppo, insomma: gli arrangiamenti risultano sovrabbondanti, eccessivi, manifestamente world (per il sottoscritto, a meno che non ci si chiami Robert Wyatt, una delle peggiori disgrazie in musica). Tra batterie riverberate, bassi gommosi e synth orchestrali, simil clavicembali ed enfasi a profusione (Three Colors Red), la voce di Tanja si leva come una sorta di Madonna primissima maniera (Brand New World) o come una Liz Fraser in sedicesima (Velvet Rope) che scopre di essere Kate Bush (Soul Traveller). Altrove sono i synth pop lunari di Comet, con citazione Laurie Anderson non proprio brillantissima, ed Henry Distance (praticamente Enya su Neverending Story). Sembrerebbe quasi un’intenzionale ricognizione sul senso della vocalità muliebre, che sulla carta è d’interesse tutt’altro che secondario ma che di fatto, oltre ad essere decisamente al di sopra delle possibilità dei nostri, snatura l’anima più autentica del progetto. Per non dire che l’effetto, spiazzante, è quello di finire per richiamare certo pop al femminile, dell’unico decennio durato trent’anni, che si sperava del tutto dimenticato (Bonnie Tyler, Kim Carnes, Maggie Reilley), quando non proprio ad un ipotetico Eurofestival indie.
Purtroppo il gruppo è assente anche in termini di scrittura: i brani, aldilà di ogni altra mia cattiveria, non si lasciano ricordare, sono poco incisivi, ed anche un pizzico disturbanti nella loro pretenziosità. I tentativi di non fossilizzarsi su un suono di base già ampiamente collaudato, sono sempre e comunque ammirevoli ma per un più organico sviluppo sarebbe di certo opportuno abbandonare, ed anche alla svelta, certi luoghi.
[box title=”Lonely Drifter Karen – Poles (Crammed Discs, 2012)” color=”#5C0820″]
Tracklist
Three Colors Red | Eyes of a Wolf | Soul Traveler | Dizzy Days | Comet | Henry Distance | Rain in Beijing [/box]