E’ disponibile dal 3 dicembre la distribuzione europea del David Bowie Box pubblicato da sony; cofanetto che continene gli ultimi cinque album di Bowie, ovvero Outside, Earthling, Hours Heaten e Reality presentati in edizione speciale doppio cd. Insieme ad ogni album vengono pubblicati tutti i remix, le b-sides contenute nei singoli relativi al periodo di pubblicazione. Abbiamo sfruttato questa occasione per chiedere a Federico Fragasso di tornare indietro e (s)mitizzare dieci album mitici del duca bianco in 5 articoli , questa è la terza parte, lo storico di questo speciale si trova da questa parte
Anche le infatuazioni musicali del nostro hanno nel frattempo subito un cambiamento di rotta: durante i lunghi spostamenti in auto attraverso gli Stati Uniti l’artista ha ascoltato con trasporto le radio americane, finendo per appassionarsi, come non gli capitava dagli anni dell’adolescenza, alla musica nera trasmessa in rotazione. Spopola allora la più recente mutazione del Funk, caratterizzata da melodie accattivanti e sofisticati arrangiamenti d’archi: è il cosiddetto Philly Sound, che pochi anni più tardi genererà la Discomusic.
Proprio a Philadelphia, durante una pausa del tour, Bowie incide il successore di Diamond Dogs, Young Americans (1975). L’album registra una brusca sterzata verso sonorità Soul, dimostrando nel complesso una compattezza ed una organicità che mancavano ai due lavori precedenti e annotando gli straordinari progressi compiuti dall’artista in campo vocale. La rinnovata sezione ritmica comprende Willie Weeks al basso e Andy Newmark alla batteria, cui si aggiungono numerosi percussionisti e coristi, il piano di Garson ed il sax di David Sanborn per creare un sound pieno e sofisticato come mai prima. Alla chitarra Carlos Alomar, collaboratore chiave da qui alla fine del decennio, svolgerà il ruolo di spalla che un tempo era stato di Ronson.
La title-track rende subito evidente come la ritmica abbia assunto un ruolo di primo piano nelle composizioni. Sassofono e pianoforte fanno da contrappunto alla briosa melodia, mentre David traccia un ritratto sommario dell’America del ventesimo secolo vista con gli occhi di un Inglese. Ci sono riferimenti allo scandalo Watergate (“vi ricordate il vostro Presidente Nixon?”), alla lotta di emancipazione degli afroamericani (“stai con le mani in mano/su di un autobus di sopravvissuti/arrossendo alla vista dei lustrascarpe negri”) a icone del cattivo gusto occidentale come la Ford Mustang e la Barbie, nonché un paio di immagini insolitamente violente (“perché non ti porti dietro un rasoio in caso di depressione?”…”non c’è in giro qualche donna da prendere a cazzotti nei denti?”). Win, ballata che scivola su un soffice tappeto di chitarre flanger, sfocia in un ritornello dalle tinte Gospel, il sinuoso Funk di Fascination ha un impatto micidiale, mentre un basso fluido e una linea vocale tipicamente Black caratterizzano Right.
Somebody Up There Likes Me è una celebrazione, quasi un sermone religioso. Il carattere gioioso della musica non deve però trarre in inganno, nasconde il ritratto di un carismatico e astuto uomo politico, “figlio selvaggio del tubo catodico”. Le implicazioni totalitarie del testo sembrano anticipare le future ossessioni di Bowie. Linee di chitarra sulfuree tratteggiano la cover di Across The Universe dei Beatles, sostenuta da una potente base ritmica. Can You Hear Me, delicata ballata orchestrale, precede il singolo Fame, scritto con l’apporto di John Lennon e Carlos Alomar. Un Funk secco e punitivo, chiaro omaggio alla musica di James Brown, accompagna un testo velenoso che illustra le trappole della celebrità. L’astio di David nei confronti del proprio manager Tony DeFries, colpevole di aver sperperato gran parte dei guadagni dell’artista a sua insaputa, è evidente ed in effetti il pezzo precederà di poco una rottura fra i due ormai inevitabile.
Young Americans gode di molti meriti, primo fra tutti quello di aver costituito la prima escursione significativa di un artista bianco nel mondo della musica nera. In capo a un paio d’anni il Soul e il Funk sarebbero stati sdoganati al pubblico di massa tramite l’avvento della Discomusic. Nel decennio successivo la figura del molleggiato in completo su misura, alla base di gruppi come Spandau Ballet e ABC, avrebbe addirittura finito per ridursi ad un scialbo clichè. Nonostante tutto però l’impressione generale data dall’album è quella di un esercizio di stile, seppur superbamente eseguito. La musica appare maggiormente derivativa rispetto al passato (Bowie sarebbe giunto ad una ben più personale rilettura del Soul con l’album successivo) mentre i testi, salvo rare eccezioni oltremodo disimpegnati, costituiscono un episodio isolato nella produzione del musicista inglese.
La BBC immortala Bowie nello speciale televisivo “Cracked Actor”, grazie al quale la sua straordinaria mimica viene notata da Nicolas Roeg. Impressionato, il regista affida a David il ruolo principale nel film “L’uomo che cadde sulla terra”, primo dei numerosi flirt che l’artista intratterrà con il mondo del cinema. È proprio il timido alieno Thomas Jerome Newton, protagonista della pellicola, a fare capolino sulla copertina del successivo LP, il piccolo capolavoro Station To Station (1976). Si tratta di un album di transizione in cui le influenze Black sposano la recente passione del nostro per le sonorità provenienti dalla Germania, allora riunite dalla stampa musicale sotto l’etichetta di Krautrock o Kosmiche Musik.
L’infatuazione di Bowie per l’estetica teutonica, in particolare per l’espressionismo degli anni trenta, si riflette nelle fattezze del suo ennesimo alter ego: il Sottile Duca Bianco mostra infatti i tratti di un ubermensch ariano dall’eleganza impeccabile, il biondo ciuffo impomatato e la sigaretta sempre accesa. Carburato da massicce dosi di cocaina, praticamente l’unica sostanza che ormai consuma insieme al latte, ossessionato dall’occultismo e preda della paranoia nella sua villa di Bel Air, il nostro si lascia andare a dichiarazioni pubbliche piuttosto controverse. Frasi come “forse sono completamente pazzo, ma ho sempre provato l’esigenza di essere qualcosa di più che umano… all’epoca di Ziggy Stardust tutti mi ripetevano che ero un Messia…sarei potuto diventare l’Hitler inglese, un Hitler maledettamente credibile… sarei un eccellente dittatore… le masse sono stupide”, illustrano chiaramente quanto la psiche di David fosse vicina al collasso durante gli anni passati a Los Angeles.
Nel delirio l’artista appare comunque incredibilmente focalizzato dal punto di vista musicale. Il “Plastic Soul” dell’album precedente viene qui contaminato dall’elettronica mentre le ritmiche si fanno marziali, sotto l’influsso di Kraftwerk e Neu!, in un percorso teso verso la sperimentazione che culminerà nella trilogia berlinese. Ad affiancare Bowie, oltre ad Alomar, ci sono George Murray al basso, Dennis Davis alla batteria (sezione ritmica riconfermata per i successivi quattro album), Roy Bittan al piano e Earl Slick alla chitarra solista.
Ronzii elettronici simulano l’andamento di una locomotiva mentre un feedback di chitarra e due gravi note di pianoforte introducono la title-track, epopea di oltre dieci minuti che parte come un moderato Motorik per poi tramutarsi in ruggente cavalcata Disco-Rock. Il testo contiene numerosi passaggi riconducibili alla Cabala ebraica, fusi con l’immaginario cristiano della Via Crucis cui si allude nel titolo. Seppur di difficile interpretazione le parole sottolineano l’ostinata ricerca spirituale che caratterizza l’intero album: i temi della Caduta e della Redenzione vengono espressi nei termini di un “magico movimento da Kether (sfera del Divino) a Malkath (sfera del regno fisico)”.
Golden Years è un’esempio di Funk bianco che delinea con netto anticipo lo stile dei primi Talking Heads mentre la delicata melodia pianistica di Word On A Wing ricalca le atmosfere Soul dell’ album precedente. Questa accorata invocazione rappresenta per Bowie un tentativo di sfuggire alla desolazione spirituale provocata dall’abuso di cocaina: “Signore, mi inginocchio e ti offro la mia parola alata/sto cercando disperatamente di adeguarmi al tuo schema delle cose”, recita l’artista per poi aggiungere “solo perché credo non significa che debba smettere di pensare/di mettere tutto in discussione all’Inferno o in Paradiso”. La demente filastrocca di TVC15, da cui David Byrne e il suo gruppo impareranno una cosa o due, abbassa drasticamente i toni del linguaggio prima dell’irruzione di Stay, nella quale Alomar e Slick incrociano le chitarre per prodursi in un aggressivo riff di Funk-Rock. David analizza il carattere imperscrutabile dei rapporti fra persone: il disperato bisogno di compagnia lo porterebbe a trattenere ogni occasionale partner ma una dolorosa insicurezza psicologica gli impedisce di esprimersi, perché “non si può mai essere sicuri che qualcuno voglia le stesse cose che vuoi tu”. Chiude l’album l’evocativa cover di Wild Is The Wind, tema conduttore dell’omonimo film western del 1957, registrata in origine dalla cantante Jazz Nina Simone, molto ammirata da Bowie.
Durante il tour di Station to Station a David si affianca l’amico Iggy Pop, reduce da numerosi tentativi di disintossicazione e saltuari soggiorni in centri d’igiene mentale. La vicinanza fra individui tanto instabili avrebbe potuto dimostrarsi fatale per entrambi ma, incredibilmente, pone le basi per una sofferta riabilitazione: i due decidono di lasciarsi alle spalle la vita di eccessi condotta negli Stati Uniti e si trasferiscono insieme a Berlino. Prima di approdare nella città-simbolo della guerra fredda, però, fanno tappa a Parigi dove incidono il primo dei due album che rilanceranno la carriera dell’Iguana. The Idiot, in cui David suona la chitarra solista, funge da prototipo per la trilogia berlinese e contiene China Girl, canzone portata al successo dal nostro qualche anno dopo. Il robotico Kraut-Blues delle sue composizioni costituirà un modello di riferimento per molte formazioni New Wave: i Joy Division, ad esempio, faranno tesoro delle claustrofobiche atmosfere che permeano l’opera. Lust For Life, inciso a Berlino, segna invece il ritorno ad un Rock’n’Roll sanguigno ed energico, forte di due perle come la title-track e l’indimenticabile The Passenger. Entrambi i lavori possono considerarsi appieno parte della discografia del Duca, autore della maggioranza dei pezzi in essi contenuti.