Di recente Natasha Khan, anima e corpo di Bat for Lashes, ha dichiarato con disappunto quanto la felicità e la gioia di vivere vengano spesso percepiti come intrinsecamente uncool. Patrick Wolf con l’ultimo Lupercalia celebrava la vita e soprattutto l’amore e incontrava la delusione di molti. Non tanto dovuta a questioni di uncool-ness, quanto alla staticità di un pop sornione e romanticone, le cui pur interessanti derive kitsch (The City) andavano perse in un mare di vuote croniche della vita domestica di coppia, nelle quali veniva camuffata un bel po’ di quell’autentica bellezza cui ci aveva abituati. Per celebrare i dieci anni di carriera Wolf, senza dubbio uno degli artisti più influenti della nuova generazione di songwriter 00s e straordinario performer, torna con un doppio album di riletture acustiche di brani scelti ad hoc dalla sua discografia, inaugurata nel 2002 dal leggendario Lycanthropy. Il titolo di questo mastodontico tour de force, tratto dal testo di London, allude a un ossimorico equilibrio tra luce e tenebra; eppure la bilancia pende senza dubbio a favore della notte, storica alleata dell’acustico: non è un caso che Patrick abbia recuperato fin dall’artwork i toni umbratili e l’immaginario gothic dei primi due dischi, per fortuna qui ampiamente rappresentati. I pezzi non sono necessariamente spogliati, ossificati dalle revisioni orchestrali, ma nella maggior parte dei casi ricercano un maturo equilibrio, che il Patrick minimale e riflessivo e il Patrick istrione approssimano alla ricerca di affascinanti compromessi. L’aver intenzionalmente ripartito le due speculari ispirazioni tra i due dischi è solo un vezzo stilistico, un espediente concettuale: nel complesso lo spessore globale di Wolf non registra qui facili sdoppiamenti, scongiurando l’abisso che divise The Bachelor/Lupercalia. Ciò che si perde, inavvertitamente, è il piglio ribelle, il tormento, il vigore che i pezzi qui rimpacchettati evocano nella memoria. I brani dei primi dischi (Wind in the Wires/The Teignmouth/London/Wolf Song tra gli altri) tornano il più delle volte senza particolari scompensi. La classica The Libertine non perde il suo esplosivo galoppo e anzi esce vincitrice dal trattamento orchestrale e adornata da una breve, inedita outro. Altrove giungono riletture più radicali: Vulture, da martellante isteria industrial a dimesso sproloquio al piano, Paris a sua volta rimasticata fino a perdere ogni originaria asperità. The Magic Position brilla degli antichi fasti, ma suona prematuramente stanca e addomesticata. House, dal canto suo, trova finalmente misura nel raccontare quella gioia incontenibile di cui prima si parlava. L’occasione di un decennale si presta per sua stessa natura a ricordi e nostalgie. Sundark and Riverlight ci guida attraverso una discografia movimentata e ricca di autentici capolavori, confermando il calibro del Patrick polistrumentista, interprete e compositore. Senza volerlo mette però anche in evidenza ciò che nel tempo è andato perduto e vorremmo ritrovare, prima o poi, giorno e notte, nei capitoli a venire.