Mi sembra quasi di vederla Annie Clark tra i banchi di scuola: bei voti, bei capelli, bello un po’ tutto. Un po’ prima della classe, un po’ eccentrica irraggiungibile. Anche la sua musica è alla ricerca di un fascino di mezzo: le intuizioni e i virtuosismi da prodigio assieme all’estro a tratti capriccioso di chi vuol fare sistematicamente a modo proprio. Guai a farsi cogliere impreparata, guai a partorire un solo pezzo che possa funzionare come musica di sottofondo. L’ostinazione di Annie arriva al terzo disco, secondo per 4AD, e si guadagna di nuovo un ottimo pagellino. Fortunatamente per noi la condotta lascia un po’ a desiderare, rimane sempre quell’energia incontrollabile, un po’ isterica, di cui già l’ultimo Actor era un distillato perfetto, musica che fa sobbalzare sulla sedia rimanendo accessibile, che diverte nel momento stesso in cui disturba la vostra quiete. Strange Mercy prosegue la sfida di Actor là dov’era rimasta, arricchendola con una buona dose di oscurità e sex appeal nei testi, decretando un ulteriore distaccamento dalle romanticherie che tenevano uniti i pezzi del primo Marry Me. Le vincenti composizioni di Annie, prostrate alla centralità della sua chitarra, sono tutte potenti, altisonanti. Fatta eccezione per alcuni dovuti rilassamenti (la title-track, le anomalie della ballad Champagne Year, il Feist-y pop di Year of The Tiger) i brani inseguono l’imprevisto, quel cambiamento repentino e incontrollabile da attacco di panico che lei stessa ha spesso preso a paragone nelle interviste. Le chitarre esplodono quando meno te l’aspetti, l’impianto dei pezzi è netto, robusto (complice l’empatica produzione del consueto John Congleton), meno arioso che in passato, quasi sempre dotato di un picco o di uno scivolamento nel caos. La voce di Annie è sempre nitida e rasserenata, forse più sensuale che in Actor, mai particolarmente affascinata dal dramma. La visione dell’omonimo film di Éric Rohmer ispira il brano di apertura Chloe in The Afternoon, tra moog e discontinuità di chitarre e beats. Il singolo Cruel, come la bizzarra Hysterical Strength, sembra quasi disco-oriented, ma alterna potenti chitarre, quasi “motorizzate”, a un morbido refrain orchestrale senza fare una piega, per poi ostinarsi in un ritornello in cui la voce di Annie diventa ossessiva. Repetita iuvant: martellare l’ascoltatore con ripetizioni o formule di estrema orecchiabilità è certamente uno degli espedienti della nostra. “I, I, I, I don’t wanna be your cheerleader no more”, canta raccontando il personaggio di Cheeerleader, in bilico tra l’amareggiato e lo screanzato. Surgeon, che strizza l’occhio ai maliziosi con il primo verso “I’ve spent the summer on my back”, è uno dei pezzi migliori del disco per complessità ed estro: tutta l’abilità di Annie alla chitarra, un ritmo caleidoscopico che diventa via via sempre più febbricitante, un acidissimo assolo di moog di Bobby Sparks in chiusura, la voce che sinuosa inciampa in se stessa trasformandosi in uno sfogo isterico. Northern Lights rincara la dose elettrica rincorrendo una crazy-as-fuckness, si passi l’eufemismo, che di certo troverà dal vivo la sua veste migliore. Un po’ di ristoro con la title-track, un’elegante ballad art-rock che potrebbe essere un bell’aggiornamento di certa Kate Bush di fine 80s. Dilettante maschera una fascinazione r’n’b vagamente “poliziotta” con i consueti cori (incongruamente celestiali) e le chitarre sferzanti, che sembrano prendere il posto di orchestrazioni d’archi che l’avrebbero resa una morbida ballata soul… se solo non fosse stata su un disco di St. Vincent. “I make a living telling people what they want to hear”, canta Annie in Champagne Year. In un certo qual modo possiamo prendere la frase alla lettera e riconoscerle il merito di saper orientare il gusto, facendo di questa quasi inverosimile stramberia un disco ghiotto ed eccitante.