Ringalluzzito da una recentissima reunion con i suoi Pavement, a 3 anni dall’opaco Real Emotional Trash, torna Stephen Malkmus con Mirror Traffic, quinto episodio della sua saga Jicks. Al guado, ognuno di noi, potrebbe anche non crederci ma non si è mai fuori tempo limite per certe cose, ed aver amato con tutto il cuore i ’90, iniquamente ricordati come aridi, può proporci prospettive con un’angolazione diversa. Malkmus ha rappresentato e rappresenta quest’angolazione. Difficile tuttavia trovare chi non abbia provato affetto per quel suo faccione da steward, urlato a squarciagola le sue stramberie o goduto dell’irriverenza ruffiana dei suoi Pavement. Aggiungasi poi la succosità leggendaria del sig. Hansen (aka Beck), qui in veste di produttore e si capirà quanto c’è da capire per questo disco. Certo, non che l’epopea Jicks abbia da aggiungere molto altro, ma un assoluto rigore fisico ed una dieta sana possono mantenerci in forma, pronti ad affrontare i quaranta senza lo spettro dell’eterna giovinezza che incombe e consapevoli che se proprio si deve invecchiare, tanto vale allora farlo bene. Ed è ciò che a prim’acchito vien fuori da Mirror Traffic. Un lavoro tonico e maturo che cede alla tentazione di guardarsi indietro senza però dissimulare il presente. Uno specchietto retrovisore (appunto) dal quale fugare ogni dubbio sul percorso intrapreso, soddisfatti per quanta strada lasciata dietro ed i sorpassi riusciti. Perchè bissare i vent’anni non significa non aver ancora tanto da scoprire lungo il sentiero dei turbamenti. Il fulgore sfaccendato e giovincello dell’apripista Tigers o l’iperattività caustica di Senator ne sono la prova vivente. Cantare di un pompino a quarantacinque anni senza sembrare grottesco e patetico è una prerogativa congenita al genio di Malkmus, così come lo è quel suo incedere disinvolto tra un distico inneggiante a Lou Reed (Brian Gallop) e quella bonarietà folk banhartiana di No one is (as I are be), con lo stesso piglio trasognato di chi ancora vuole provarci ma senza particolari patemi. Nella serie di deja-vu più o meno risolti che s’avvicendano poi alla strumentale Jumblegloss, c’è spazio per il college-rock sgembo di Spazz e Tune Grief, ancorchè per il mood indiepoppettaro di Stick figures in love e Fall away, le prime per un premuroso amarcord di ciò che fu Slanted And Enchanted dei Pavement, le altre per donare plasticità ad un opaco quadretto dreamy, dannatamente sedotti da un bacio al tramonto. Forever 28 ci lascia benedire l’intento prodigo di leggere tra le righe del passato mentre Share the red ci scuote come fece Ann don’t cry. Al riproporsi dell’atavico dilemma, Beatles o Stones, ci pensano infine All over gently e Gorgeous George che sembrano aver trovato una via di mezzo, un accordo, un compromesso, l’unico in realtà a cui il songwriter di Santa Monica abbia davvero prestato fede in tutti questi anni. Insomma un immenso albo di ricordi e la voglia di rievocarli tutti per Malkmus & The Jicks, esperienza che a dieci anni dalla prima release, suona un po’ sconveniente trattare come b-side project, ignorando di fatto l’importanza che questa band abbia nella scrittura dell’ex Pavement, più che mai viva ed evidente in quest’ultimo disco, complice inoltre un ottimo Beck. Sebbene possa essere inserito, a ben vedere, tra i musicisti più influenti di sempre, Stephen Malkmus passerà alla storia come talento modesto, non virtuoso ed assai lontano dalla sufficienza tecnica imposta dal mainstream. Grazie al cielo!