Così come il bell’artwork, che vede campeggiare su un fondo nero una sorta di rosone gotico in realtà composto da farfalle, anche il suono dei Sycamore Age (il cui nucleo centrale è rappresentato da Stefano Santoni, Francesco Chimenti, Davide Andreoni, circondati da un gruppo di polistrumentisti) si presta a più di un’interpretazione, a più di una lettura. Anche il suono sembra affiorare da uno spazio scuro, indistinto, da cui gli strumenti emergono uno per volta: che siano acustici o elettrici o elettronici; che siano voci, battiti di mani o utensili di vario genere, ognuno è isolato, unico, con un vuoto intorno che pare infinito. C’è lo spirito della Young God ad aleggiare: qualcosa tipo primi Akron Family o gli Angels of Light o glistessi Swans di oggi: un folk nero ma non monolitico; apocalittico ma anche sornione. Forse c’è il caos calmo degli Okkervill River ed i Flaming Lips in riverbero di The soft bulletin. Forse il glamour antracite dei Paper Chase. Si scorge in nuce il ricordo dei Bartòk e, di conseguenza, di certa avanguardia contemporanea e di certa new wave legate insieme. C’è il reflusso psichedelico di lauti banchetti hard/blues che poggia The soundtrack of our lives su gighe elettroniche Animal Collective ed un canto invocante muse d’Albione (Thom Yorke?) ma di più ampie vocazioni europee (e di genoma italo). E si potrebbe continuare a richiamare assonanze potenzialmente all’infinito, giacché ogni volta qualcosa sembra sfuggire dall’inquadratura, volare via, in un’altra direzione, come le farfalle che finalmente si liberano nell’interno di copertina. Ed allora i riferimenti, veri o presunti, mutano, si/ti contraddicono e tutto è da riformulare. Laddove il pianoforte conduce su maree oscure e gli archetti dicono di passati classici, i synth scompaginano e conducono altrove ma non è dato sapere dove (Binding Moon). Quando è l’isteria a prendere il soppravvento, le frequenze vanno in acido, ci si avvicina al vaudeville e di colpo stasi; ma basta un guaire di fiati e si sprofonda in una statica ansiogena (My bifid syrens). Quando si è felici, invece, (Happy!!!, appunto, ma anche At the biggest tree) lo si è alla maniera dei nordici: si canta in gruppo, si battono le mani, solo le chitarre si distorcono un po’. Poi, il countdown di Dark and pretty part two e Dark and pretty, dai beffardi languori di grammofono ‘900: rotta da clangori e sospiri industriali, la prima in ordine d’apparizione; sorretta da barocche miniature acustiche, la seconda. La batteria incede marziale e rotolante, l’elettronica s’insinua sommessa ma incidendo profondamente sulle strutture: ora per disegnare mazurke lynchane (Astonished birds e Kelly!!!); ora per contrastare gli evocativi arpeggi sintetici dell’unico brano esclusivamente strumentale (How to hunt a giant butterfly). Poi c’è il pezzo pop, a suo modo, che non a caso fa anche da singolo (Heavy Branches), che riprende tutte le suggestioni del disco e le sintetizza in un’immediatezza sofferta ma lieve: un caleidoscopio dalle tessere tutte grigie. Questi sono i Sycamore Age, con i loro trascorsi; con le loro già lunghe ed importanti esperienze, maturate singolarmente ed in gruppo, come l’esser stati invitati al prestigioso Popkomm festival di Berlino; con il loro bagaglio di competenze e conoscenza. E questo è il loro esordio ed è difficile pensare ad un esordio più sentito, compiuto e compatto. Ben pensato e prodotto. Dagli arrangiamenti ricercati ed oscuri, grazie ai quali, anche gli equilibri più delicati, riescono a mantenersi saldi; che fanno trattenere il fiato, muovendo all’attesa angosciosa di quel colpo di scena che, alla fine, puntualmente, arriva.