sabato, Novembre 2, 2024

Tame Impala – Lonerism (Modular, 2012)

Innerspeaker è stato l’album che aveva tutti i crismi della rivelazione. Non solo, al tempo in cui uscì, aprì gli occhi su una scena musicale, quella australiana, che era stata fin troppo in disparte, ma si inserì alla perfezione in quel filone neopsichedelico del quale Animal Collective e MGMT (i primi, in realtà, recentemente piuttosto sfioriti) furono i precursori.
Atteso quindi con (forse fin troppo) spasmo, Lonerism si manifesta comunque come una delusione, e non delle più lievi.
Nato da una crisi espressamente dichiarata dal leader Kevin Parker e realizzato in circostanze del tutto particolari (parti registrate un po’ a caso in giro per il mondo – una voce registrata su un aereo, una parte di chitarra a Vienna), l’album si dipana come un vero e proprio concept sullo smarrimento, del quale si ha un’immediata conferma dando una scorsa ai titoli (Mind Mischief, Why Won’t They Talk to Me?, She Just Won’t Believe Me).

Fin qui nulla di male e tutto, anzi, assolutamente onesto.

E il disco parte pure bene, con un affannoso rincorrersi di voce e batteria (con tanto di flanger a spiazzare l’ascolto) in Be Above It, sintomatico di attacchi di panico che si distendono nella luminescenza dei sintetizzatori. Significativo, però, è che il pezzo non “parta” mai, come la successiva Endors Toi, con le sue progressioni accordali volutamente centrifughe.
Chiaro è dunque il tentativo di traslare l’assenza esistenziale di punti di riferimento su un piano puramente musicale, ma è altrettanto vero che un meccanismo del genere, dipanato su 50 minuti e passa, risulta assai debole e sfianca, più che spiazzare, l’ascoltatore.
Di Innerspeaker mancano più o meno tutti gli elementi che di quel disco erano punti di forza: l’organizzazione delle digressioni strumentali, le linee vocali, la compattezza delle parti chitarristiche, qui sostituite da un ingrossamento corposo di parti di tastiere.
Strumentalmente, addirittura, il disco suona persino più prog e anni ‘70 del precedente (Apocalypse Dreams, She Just Won’t Believe Me), dato che, sempre per intenzioni dichiarate da Parker, il modello dovrebbe essere il primo Todd Rundgren, che però immetteva nei suoi arrangiamenti ben altra perizia tecnica e ben altro gusto.
Vocalmente, poi, i riferimenti beatlesiani e del Lennon solista sono ancor più marcati, quando non sfiorano il plagio vero e proprio (Mind Mischief), e si ripiegano inevitabilmente su se stessi.
Si capisce che Parker abbia voluto mettersi in gioco completamente sotto il profilo emotivo  e abbia inteso far confluire le sue ispirazioni in un caleidoscopio musicale tale da mirare all’assorbimento totale (ma sarebbe meglio dire saturazione) da parte dell’ascoltatore. Ma così tanti colori, alla fine, non possono che darne uno solo e tutto risulta involuto e confusionario quando mancano ordine e sintesi (come in Nothing That Has Happened So Far Has Been Anything We Could Control, una vera e propria summa di tutto il disco).
Anche un singolo come Elephant, dalle indubbie potenzialità nel suo voler rievocare un po’ di White Stripes e di Black Sabbath, viene inutilmente reso complicato e la chiusa con un pezzo a metà fra la ballata pianistica sgangherata e l’ormai abusato rumorismo psichedelico manifesta una certa mancanza di chiarezza di idee.
Preso come flusso incontrollato di coscienza, il disco sarebbe sicuramente, per lo meno dal punto di vista concettuale, un capolavoro; ma formalmente, invece che “aprirsi” alla mente e al cuore, ottiene l’effetto contrario, risultando involuto e ripetitivo.
In quella che è, alla fine, un’occasione mancata finiscono per brillare quasi solo i suoni (quelli sì, davvero perfetti) realizzati da Dave Fridmann, vero uomo d’oro della scena psych-freak sin dagli anni ‘90 (per capirsi, Mercury Rev e Flaming Lips).
Dal vivo, pare che Parker e soci facciano ancora le fiamme e forse è in realtà proprio quella la sede più appropriata per realizzare quel “coinvolgimento dell’altro” al quale la band mirava per debellare la malattia del “lonerism” descritta in quest’album.

Francesco D'Elia
Francesco D'Elia
Francesco D'Elia nasce a Firenze nel 1982. Cresce a pane e violino, si lancia negli studi compositivi e scopre che esiste anche altra musica. Difficile separarsene, tant'è che si mette a suonare pure lui.

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