venerdì, Novembre 8, 2024

The Antlers – Burst Apart (Frenchkiss, 2011)

Il dolore, quello straziante e terribile, sembra superato e uno spiraglio di luce lo ha guidato alla fine del tunnel. Pete Silberman forse non lo si immagina scatenato su una pista da ballo ma, per lo meno, deve aver trovato, nel giro di quasi due anni, una sorta di pacificazione, di palliativo ai propri, inconsolabili demoni e, nell’impresa, è stato certamente aiutato in misura maggiore, almeno dal punto di vista strettamente musicale, dai soci Darby Cicci e Michael Lerner, stando alle sue stesse parole. L’ultimo lavoro della band di Brooklyn (sì, alla fine è giusto che sempre lì si vada a ricadere) risente, infatti, in maniera significativa di una visione meno tormentata dell’esistenza e tale approccio, più corale, si riflette in maniera decisiva in tutto lo scorrere di Burst Apart. Si comincia con una decisa dichiarazione di intenti: I Don’t Want Love, che già, però, pugnala a fondo, piena di chitarre scintillanti nel ritornello strumentale e avvolto di hammond eterei nella strofa soffusa. La voce di Silberman è limpidissima, in forma smagliante, un ottimo mix fra Antony e Jeff Buckley; e la canzone è semplicemente meravigliosa, quella che Chris Martin, per intendersi, non sarà mai capace di scrivere. Con tali succulente premesse, ci si aspetta un altro album allo straordinario livello di Hospice, ma si avverte abbastanza presto che forse non sarà così. Non che le divagazioni trip hop delle successive Parantheses (quasi un omaggio agli ultimi Massive Attack) e No Windows siano mal congegnate, ma a tratti soffrono di un’eccessivo soffocamento nella forma canzone (vedi anche Every Night My Teeth Are Falling Out) e di un troppo calcolato approccio pop che, se da un lato, aumenta la fruibilità del materiale, dall’altro ne smorza eccessivamente l’impatto drammatico. Le cose vanno decisamente meglio negli ipnotici vocalizzi e nelle atmosfere cullanti, quasi à la Moby, di Rolled Together e negli arpeggi sognanti di Corsicana e di Hounds, davvero struggente nella sua contemplazione estatica, culminante in un delicato assolo di tromba, e geniale nei suoi continui stop and go di batteria. Il disco chiude anche bene, con la ballata Putting The Dog To Sleep, puntellata da una melodia in perfetto bilico fra soul e reggae: ma in generale, nonostante gli arrangiamenti sontuosi, in cui i synth di Darby Cicci sono i reali protagonisti, e la gran classe del vocalist, risente un po’ dei passaggi a vuoto che staccano troppo dal livello dei rimanenti brani. Un po’ come lo studente che prende sempre nove o dieci, ma che stavolta sembra abbia avuto fretta di consegnare il compito venti minuti prima dello scadere del termine, senza dare alla propria opera l’ultima lettura, indispensabile per farne un capolavoro.

Francesco D'Elia
Francesco D'Elia
Francesco D'Elia nasce a Firenze nel 1982. Cresce a pane e violino, si lancia negli studi compositivi e scopre che esiste anche altra musica. Difficile separarsene, tant'è che si mette a suonare pure lui.

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