Fermi dal 2009, anno del loro primo album, i britannici Jinadu e Kirk Degiorgio, insieme per il progetto The Beauty Room, tornano con un secondo capitolo che continua ad esplorare certo soft pop americano anni ’70, coinvolgendo ancora una volta Chris Whitten alla batteria (già con artisti del calibro di Johnny Cash, Paul McCartney, Dire Straits) e aggiungendo all’organico il basso Jazz blasonatissimo di Brian Bromberg e la chitarra di Rob Harris, uomo chiave del suono Jamiroquai a partire da “A funk odissey“. Come se non bastasse, per dare un sigillo ancora più filologico al lavoro del duo, gli archi della Metropole Symphony Orchestra a sostenere quasi tutte le tracce dell’album con la direzione del grande Paul Buckmaster, uno degli arrangiatori più noti del rock anni ’70, da Harry Nilsson, fino ai Rolling Stones ed Elton John. The Beauty Room II rinforza quindi il sodalizio Jinadu/Degiorgio sotto il segno marcato ed evidente del suono Steely Dan ma con una torsione post moderna, che oltre a portare buona parte delle tracce dalle parti del Donald Fagen solista avvicinano quel suono al pop intimista di John Grant; una sovrapposizione nient’affatto banale che qui si manifesta con una magniloquenza produttiva ovviamente maggiore e più orientata a recuperare un collegamento con il passato attraverso volume e ridondanza. E proprio per questo, va detto, il risultato è assolutamente sorprendente sul piano della scrittura perchè se tracce come shadows falling portano con se tutto il peggio e il meglio dell’esperienza Jamiroquai, in quella relazione tra originale e reinvenzione che affonda tutto nella forma riducendo asperità e differenze e da un certo punto di vista portando al progetto un sentore chill out jazz che attraversa tutti i brani e li rende qualcosa di più complesso da un omaggio vintage, da All In My Head accade il miracolo con un’immaginario sonoro che passando attraverso i Beach Boys più lussureggianti e la malinconia di Crosby, Stills and Nash, non disdegna tutto un campionario storico anni ’70 che non teme di sfiorare il kitsch di autori come Al Stewart, in un’idea di pop che riesca a mettere insieme l’artificio retorico dell’arrangiamento perfetto e quella malinconia capace di condurre il risultato dalle parti dell’astrazione come accadeva in certo pop americano più recente (Sam Prekop, Archer Prewitt, The Sea and The Cake) in quella sua continua tensione verso un’atmosfera altra, in fondo vicino ai risultati del Donald Fagen di Nightfly ricondotto in una dimensione atemporale, senza quell’elettronica che amavamo ma che ci ancorava ad un’era a rischio deperimento.