Bisognerà prima o poi farsene una ragione. Deve essere un problema che non ha a che fare con gli ascolti, le influenze o, semplicemente, il gusto, ma è con tutta evidenza prettamente geografico giacché, anche nell’ascoltare questo esordio di The Crookes, emerge che è sufficiente varcare la Manica perché la quasi totalità della produzione musicale sia la copia di qualcos’altro. Figuriamoci poi se uno c’è nato e cresciuto, come questo giovane quartetto, proveniente da Sheffield (ma potrebbe essere Manchester, Leicester, Birmingham o, perché no?, Glasgow) e giunto alla prima pubblicazione sulla lunga distanza dopo l’EP Dreams of Another Day. Manco a dirlo, il botto. Fermi nella convinzione che, lanciata una moda, essa sia destinata a tirare avanti per almeno un lustro (ma solo laggiù sull’isola…), gli inglesi, dall’inezia di cinquant’anni a questa parte, sono convinti che fra il cucire un vestito e il produrre un disco ci corra pochino, senonché il vestito, una volta diventato straccio, lo si dovrebbe gettare, il disco, dal canto suo, dovrebbe durare. Tale (avvilente) concezione ha senz’altro comportato un consistente appiattimento qualitativo, quando non addirittura un piegamento della vena creativa degli artisti a logiche di mercato. Ma, a grandi linee, alla musica pop britannica è sempre toccato in sorte questo destino e all’orizzonte non vi è nulla di nuovo. Tant’è che anche i Crookes (anche se dovrebbe essere il nome di un quartiere della loro città d’origine, è curioso che si siano andati, con tanta perizia, a scegliere un nome del genere, perché della truffa vi sono pressoché tutti gli estremi) seguono pedissequamente il diktat che segue: prendi una band che ti ha segnato l’adolescenza e che abbia avuto un certo peso, studiala e prova a rifarla pari pari. Nel caso di specie, oggetto dell’ ”ispirazione” (a voler essere generosi) sono The Smiths, il che costituisce motivo, se si vuole, di ulteriore disappunto, dato che chi scrive nutre per costoro un affetto e un’ammirazione con pochi eguali. Il tentativo di emulazione della voce di Morrissey, soprattutto in alcune eccessive velleità da crooner, è così smaccato da non poter non suscitare imbarazzo, per giunta senza il pathos e le meravigliose “stonature” che caratterizzavano l’originale. E anche dal punto di vista strettamente compositivo e sonoro, le soluzioni adottate sono quasi sempre quelle più facili, rifuggendo dalla varietà stilistica che caratterizzava la band mancuniana, dalla quale distano anni luce anche sul versante lirico, senza la loro ironia e poesia. Le ballate sono ballate (e annoiano), quando si accelera un po’ si rubacchia qualcosa dalle ritmiche dei primi Cure (infarciti di un’ingiustificata ed eccessiva spensieratezza), aggiornandoli con le sonorità patinate degli anni Duemila, ben consci che in mezzo sono transitati Franz Ferdinand e Arctic Monkeys, con zampate di Vampire Weekend (Carnabetian Charms). Inutile cercare emozioni vere, in una tracklist nella quale i pezzi assomigliano paurosamente l’uno all’altro (tutti, ma proprio tutti scritti in maggiore) e in cui anche una chiusa finale come poteva essere City of Lights manca di afflato epico (ma perché stoppare sempre le chitarre?). Come se non bastasse, le poche canzoni scritte sufficientemente bene (Just Like Dreamers, The Crooks Laundry Murder, 1922) tentano sempre di raggiungere il facile appeal da classifica piuttosto che accontentarsi di essere semplicemente “belle canzoni”. Un disco spento, anodino, privo di una personalità necessaria per far venir voglia di ascoltarlo, invece che suscitare solo il desiderio di rispolverare modelli che restano, tuttora, insuperabili.