Seconda Parte dello speciale dedicato ai Go Betweens diviso in 4 parti e scritto da Michele Segala. Per i capitoli precedenti e quelli successivi tenete d’occhio la categoria Go Betweens da questa parte.
Verso Londra (1982-1984)
“Le canzoni erano la nostra arma segreta”
(Robert Forster)
Lindy entra a fare parte della band come batterista, ma anche come ragazza di Robert Forster. La Morrison in alcune intervista racconta persino con un certo divertimento della sera in cui “tolse” la verginità al ragazzo di cui era di 6 anni più vecchia: Robert ne fu talmente entusiasmato da perdere il senso del tempo e, mentre ammirava la perfezione del firmamento sopra i suoi occhi (era disteso sulla spiaggia) l’automobile con cui lui, Lindy, ed altri erano giunti fin lì, ripartì lasciandolo indietro… Morrison difatti fu la persona perfetta per i Go-Betweens: non solo liberò i due autori da un rapporto d’amicizia strettissima (McLennan parlò di un’omosessualità senza sesso), ma fece anche da perfetto contraltare alle forti personalità del duo musicale: intelligente, colta, politicamente motivata, sempre fortemente polemica e cocciuta, la batterista non mancava mai di far sentire il suo peso all’interno del gruppo, e al contempo ne alimentava le capacità grazie anche alla sue grandi ambizioni: aveva già militato in altri gruppi di Brisbane (soprattutto gli Zero), ma aveva visto in quei due una potenzialità ed un livello di convinzione che non aveva mai notato in nessun altro prima di allora. A suo stesso dire quello che la colpì, e la fece decidere a mollare tutto il resto per loro fu proprio quello: la loro determinazione nel voler fare qualcosa, e sopra ogni cosa lasciare Brisbane e l’Australia.
Fu stranamente una città australiana, Melbourne, a salvare i Go-Betweens: vi si trasferirono in seguito ad alcuni concerti che tennero lì (e a Sidney) -uno dei quali in particolare come supporto ai Birthday Party di Nick Cave e a quei Laghing Clown nati dalla ceneri dei Saints. Entrambi i gruppi erano sotto contratto con l’etichetta australiana Missing Link. Fu così che i tre trovarono in Melbourne una città da cui ripartire (e dove si trasferirono in attesa di poter andare definitivamente in Inghilterra), e allo stesso tempo una casa discografica che finalmente potesse produrre il loro album di debutto. Era ormai già il 1981, e l’LP non sarebbe uscito prima del 1982, a tre anni di distanza dai loro primi due 45 giri.
Send me a lullaby è, per molti versi, un album scritto (ma soprattutto mixato) con in testa Londra: registrato con una band che ancora non aveva trovato con sicurezza la propria strada, che cercava di uscire dal pop di matrice sixties dei primi 45, e che al contempo cercava di immergersi nell’art-rock di matrice inglese che tanto li aveva colpiti nel loro viaggio londinese. Il risultato fu presto considerato lontano dall’essere soddisfacente da entrambi gli autori di liriche e musica: McLennan lo giudicò spesso inascoltabile, e Forster fu solo a volte più gentile con il loro “piccolo”. Detto questo, Lullaby è un album che si riconosce istantaneamente come figlio del suo tempo (perlomeno come lo sono i synth nel ’85, o i chitarroni grunge nel ’94), e dell’epoca porta molti difetti, ma anche qualche istante di stupore e bellezza: immerso nella sua quasi interezza in ritmi sghembi, cambi di ritmo (persino in un assolo di batteria che appare, paradossalmente, tra le cose più post-punk del mondo), versi che rivelano a tratti realtà paranoiche, ed una registrazione che non lesina nell’accordare un suono graffiante (ed un po’ sferragliante) a tutte le elettriche che vi sono all’interno. Allo stesso tempo però, non riesce a non emergere una capacità di scrivere canzoni assolutamente personale e peculiare: Forster si allontana a velocità supersonica dai bozzetti ingenui (“Non potevo continuare a scrivere Lee Remick a quell’età, sarebbe stato imbarazzante”, ebbe a dire all’epoca), ed iniziava a far intravedere la sua straordinaria abilità di costruire versi e canzoni con ritmi interni lontanissimi dal canone canzone (per capirsi: il suo senso del ritmo anomalo lo rendeva simile ad un John Lennon new wave, se mai può esisterne uno), e con strutture che rifuggono molte sequenze accordali classiche; McLennan dal canto suo, invece, ha appena iniziato a scrivere, ma già in alcuni episodi (su tutti il singolo, che anticipò l’album, Your turn, my turn, cantata però da Forster, e Hold your horses) fece intendere la sua predisposizione per melodie semplici e di facile presa (qui, in particolare in Your Turn… ancora nate dalla spinta propulsiva dei riff costruiti sul basso).
Discorso completamente diverso invece per il ben più compiuto Before Hollywood dell’anno successivo: qui i Go-Betweens -riusciti finalmente nell’intento di trasferirsi nell’agognata Albione- mettono in scena undici tracce di una brillantezza austera e fascinosa. Finalmente il gruppo riesce a sviluppare appieno i potenziali della coppia di autori, con McLennan che ormai padroneggia l’uso della propria voce (così stentoreo invece nei pochi tentativi di Lullaby), e riesce persino a firmare i pezzi migliori dell’LP.
L’opener A bad debt follows you promette quello che tutto l’album manterrà: una new wave dove l’abrasività viene declinata con melodie stringate, e persino con un certo senso di epos, tratteggiato al meglio nella gemma Cattle and cane (il capolavoro del giovane McLennan), canzone a sé stante nella loro carriera. Canzone che nessuno al mondo potrebbe pensare di emulare per le sue tante unicità: il riff allusivo, la melodia impregnata di nostalgia, il finale con quelle voci che si sovrappongono come sogni, il testo che non si vergogna di essere malinconico perché riesce ad essere sincero. Per usare un termine teatrale: è la sincerità con cui il gesto è portato che fa sì che in una canzone come questa, che parla di memoria ed in particolare della memoria di un’infanzia perduta, non ci sia nulla di stucchevole. Questo per dire del solo McLennan. Per quanto riguarda Forster le sue sono le canzoni più legate alla new wave inglese (per forma), si prenda ad esempio la nervosa Ask: il middle-eight oniricamente sospeso può ricordare i giovanissimi U2 (di Boy o October), ma non senza che per ognuno dei brani da lui firmati non emerga quella bizzarria un po’ dandy (e che a molti può farlo sembrare, per gli atteggiamenti ed i gesti, un Morrissey “minore”) che ancora non ha affinato al meglio, ma che non manca di stupire per spontaneità e personalità.
A questo punto però i brisbaniti si ritrovano ad un crocevia nella loro carriera: sbarcati finalmente a Londra (dove non mancano di condividere casa e disavventure coi connazionali ed amici Birthday Party: uno squat lurido dove stare, rischio d’overdose per vari membri dei BP, McLennan che scrive Cattle and cane proprio con la chitarra di Nick Cave…), con alle spalle contratti discografici non fortunati (la madre di tutte le etichette indie, Rough Trade, decide di mollarli dopo BH-nonostante creda in loro- per puntare tutte le fiches rimaste sugli Smiths), un lustro di esperienze, concerti,e quant’altro, senza contare le numerosi voci di incitamento provenienti dalla stampa (inglese ma non solo). Ma le vendite dei dischi non decollano. Eppure i membri della band –tutti– si sentono pronti e convinti di poter assurgere a grandezza.
Decidono quindi di tentare di gettare il cuore oltre l’ostacolo: firmano per l’emergente Reprise (contemporaneamente a Madonna, per dire), e fanno entrare un nuovo membro nella band. Il suo nome è Robert Vickers: anch’esso brisbanita, noto in città più per il suo look anomalo (niente pelle nera, niente capelli decolorati, ma caschetto di capelli castano chiaro, ben vestito, quasi un mod australiano) che per le sue qualità di bassista. A portarlo nei Go-Betweens (cioè ad affascinare Forster e McLennan) fu sicuramente la sua esperienza di vita a New York: frequentava il CBGB’s, aveva una ragazza newyorchese, e lì aveva militato in una band tra il glam ed il pop. Non era Richard Hell, ma per il trio di Brisbane divenne presto un membro importante: si integrò fin da subito con gli altri tre, e McLennan potè finalmente passare alla chitarra. Da notare che, come riporta David Nichols, il biografo dei Go-Betweens, all’arrivo di Vickers un McLennan un po’ ansioso accolse il nuovo arrivato chiedendogli (era molto che non lo vedeva): “Ti piacciono ancora i Creedence, vero? Ti piace ancora Dylan?”1
Fu così, come un classico quartetto pop-rock, che si presentarono in un nuovissimo studio dell’etichetta nel sud della Francia per registrare il loro terzo LP.
Spring Hill Fair (1984) rimane per molti un disco minore (ed un po’ sfortunato) per gli australiani : quando si ritrovarono per la prima volta con a disposizione un grande studio (mentre erano in procinto di traghettare la band verso lidi più pop) si persero, anche a causa di un produttore (John Brand, che pure aveva fatto un così buon lavoro col precedente BH) che sacrificò gli equilibri della band in favore di automatismi dettati dall’industria musicale dell’epoca. In parole povere: il batterista messo alla porta, e i suoni levigati il più possibile. Conseguentemente, senza la batteria anomala della Morrisson (ma con un’anonima batteria programmata in 5 tracce su 10) la band venne spesso normalizzata. Ciononostante Spring Hill Fair rimane un LP che contiene le prime gemme autenticamente pop del repertorio dei Go-Betweens: la Bachelor kisses d’apertura (di McLennan), praticamente la ballata romantica ideale (con tutti i limiti di monodimensionalità che ciò comporta, complice -ancora- una produzione ad alto contenuto di saccaridi), e Draining the pool for you e Part company (di Forster). Il resto del programma contribuisce a comporre un lavoro che -nel suo complesso- appare, seppure con alcuni punti altissimi, poco omogeneo.
All’epoca i GoBs parlarono di quest’album come di un Loaded o di un White Album, volendone accentuare il proprio carattere a saliscendi, ma ciò che realmente conta di Spring Hill (e che non permetterà mai di accantonarlo) è la qualità di alcuni suoi brani: la già citata Part company, per esempio, sta forse alla prima parte della carriera di Forster come Cattle and cane a quella di McLennan: prima canzone completamente matura, prima canzone inconfondibilmente sua, e piccolo capolavoro di scrittura. In cui ancora una volta si nota l’abilità -parte integrante di questi GoBs- dei due autori di declinare in modo tutto personale la forma-canzone. Ancora una volta il tempo è quanto di più lontano dai canoni rock (qui un 6/4 + 4/4 alternato con 6/4 + 4/4 + 4/4 nella strofa), sul quale sono poggiati una giustapposizione di riff e sequenze accordali armoniche che spiazzano le aspettative dell’ascoltatore, creando un brano con diversi livelli di lettura, che cresce di ascolto in ascolto. Altra menzione va fatta per Draining the pool for you. La quale racconta una storia che solo un go-between poteva pensare di narrare in una canzone pop-rock: quella di un uomo che si lamenta di essere stato relegato dalla donna di turno al mestiere di lava-piscina (quando lui avrebbe ben altre prospettive nella vita). Il ritmo saltellante e giocoso, l’ironia sottolineata dalla ripresa goffa della melodia principale nel bridge strumentale, il finale con un gentile jingle-jangle sfumato ne fanno una canzone perfettamente à la Robert Forster: bizzosa, e di un’allegria bizzarra ma contagiosa.
Manco a dirlo Spring Hill Fair (nonostante il singolo-killer Bachelor kisses) non approda da nessuna parte nelle classifiche. Eppure ora i Go-Betweens (con uno status di “band di culto” ormai bell’e pronto) non sembrano voler mollare: la scrittura di Forster e McLennan sta infatti per toccare un apice. Che corrisponderà con il loro primo grande album. (continua…. 2/4)
1 David Nichols, “The Go-Betweens”. Ed. Libera Publishing, pag. 140