Giunti al sesto album della carriera, la band di Cincinnati resta fedele alla linea, quella costruita sulle basi di Boxer e continuata nei successivi Alligator e High Violet.
Una costruzione quanto mai solida che dimostra un profondo attaccamento ai suoni e alle melodie che hanno reso i The National celebri; melodie abissali in cui sprofonda la fusione fra voce e percussioni divisa dalle sottili linee di chitarra. Un album dalla bruciatura lenta che avanza con deliziosa pigrizia mentre attraversa i quadri dei ricordi più scomodi, ustionanti come sale su una ferita (I Should Live In Salt) o del tutto paralizzanti (Demons).
Domina l’istinto nostalgico di Berninger che corre sui tasti del pianoforte in Slipped e Pink Rabbits sviando verso terreni più cupi di Fireproof, tre minuti tondi tondi di finestra su The Virginia. Pochi gli azzardi o le innovazioni, circoscritte all’incursione del synth in Heavenfaced e agli svolazzi elettronici di I Need My Girl che vede alla drum machine Sufjan Stevens, uno fra i nomi degli artisti che hanno contributo all’album, a cui s’aggiungono Sharon Van Etten, Nona Marie Invie e St. Vincent.
Quello che emerge è una precisa visione del mondo, delineata negli occhi e nelle parole di Berninger. E si dà il caso che questa prospettiva rappresenti l’essenza dei The National, la loro identità chiave che in Trouble Will Find Me trova, probabilmente, la sua espressione più diretta e immediata. Abbandonata la scrittura introspettiva dei precedenti album, Matt Berninger guadagna una nuova sintonia con l’idea dei The National, un’unione familiare dove il bisogno di dover dimostrare il proprio valore cessa d’essere un pungolo e un (ulteriore) affanno.